Cardinale Crescenzio Sepe

La nuova evangelizzazione  vista dal Pastore di una grande chiesa di frontiera, come può essere considerata quella di Napoli, per la grandezza della sua storia e per il contrasto con la gravità e l’urgenza dei suoi problemi sociali.
Qual è realmente il compito della Chiesa? Esiste, soprattutto in tempi come questi, una sua responsabilità diretta?
Sono le domande alle quali offre chiare e incisive risposte l’Arcivescovo di Napoli, Card. Crescenzio Sepe, nell’intervista rilasciata a Enzo Piscopo, direttore del settimanale diocesano Nuova Stagione, in pubblicazione sul numero di questa settimana e riportata sul sito della Diocesi www.chiesadinapoli.it.
 
Intervista

D. Come vive il Sinodo e l’Anno della Fede il Pastore di una diocesi grande e importante, ma attraversata da tante sfide e tormentata da gravi problemi? 
 
Il Sinodo sulla nuova evangelizzazione e l’Anno della Fede, che il Papa ha indetto nel 50° anniversario del Concilio, sono, tutti insieme, un provvidenziale invito a rivivere un tempo forte di Chiesa, qual è stato il Vaticano II, e, allo stesso tempo, a guardare avanti verso le nuove sfide che una società complessa pone alla Chiesa del nostro tempo. Bisogna ritrovare l’entusiasmo del Vangelo.
 
Sappiamo bene che il mondo è cambiato e continua a cambiare. La società conserva ormai tracce sempre più sbiadite di un cristianesimo spesso presentato come un’ideologia al pari di tante altre o come la centrale di norme morali ormai superate. Anche Cristo rischia di essere il “grande sconosciuto del nostro tempo”. È una realtà amara, più volte sottolineata da Papa Benedetto XVI. È una realtà che, più di ogni altra, oggi interpella e chiama in causa la Chiesa. Ma la domanda è: possiamo scaricare solo sul mondo e sulla società questa che appare, invece, anche come la nostra grande colpa?
 
In realtà, il vero dramma della Chiesa è che essa non sempre riesce a far trasparire, in tutto il suo splendore, il volto di Cristo. Dobbiamo anche ammettere che spesso è essa stessa ad appannarne l’immagine e a renderla opaca e poco attraente per un mondo che, pur nelle sue incertezze e nei suoi smarrimenti, non sembra cercare altro.
Di questo dobbiamo non solo preoccuparci, ma provare dolore e terrore. E non bisogna pensare necessariamente agli scandali che hanno scosso e turbato recentemente la coscienza dei fedeli. A questa orrenda serie di misfatti e di vere e proprie contro-testimonianze il Papa ha dato risposte forti e convincenti.
 
La preoccupazione più forte è , invece, quella per una Chiesa che non riesce più ad essere se stessa, una Chiesa avvolta nella mediocrità di un’esistenza grigia, conformata a certi stili di vita del mondo, una Chiesa chiusa e arroccata su se stessa,  che spesso sa dire solo parole che restano inascoltate perché fredde e scheletriche, parole senza la “carne” del vissuto, parole “dis – incarnate”. Il mondo capisce quando portiamo il Vangelo nel cuore. Ho la gioia di costatarlo nel ministero di tanti ammirevoli sacerdoti della mia Diocesi.
 
Nel Sinodo e nell’Anno della Fede, la Chiesa deve ritrovare il coraggio e l’umiltà di guardare in se stessa, rimettendo al primo posto il Vangelo, prima di pensare ad evangelizzare gli altri.
 
D. Lei sembra prefigurare il tempo di una richiesta di perdono da parte della Chiesa.
 
Evangelizzare significa anzitutto conversione, purificazione, confessione delle proprie colpe. Quindi non un perdono indistinto, o applicato a situazioni specifiche: è all’uomo d’oggi, redento da Cristo, alla sua solitudine, al suo smarrimento, che dobbiamo chiedere il nostro perdono. Penso soprattutto alla responsabilità di avere ingrigito il Vangelo con una vita mediocre. Se la Chiesa non riesce a utilizzare, a rendere trasparente e viva la propria fede, che è la confessione forte e coraggiosa di Cristo, allora anche l’evangelizzazione, alla fine, risulta inefficace.
 
In molte parti, infatti, si constata che l’evangelizzazione è declamata e rivolta ad extra, ma non sempre messa in pratica e rivolta anche all’interno per vivificare le nostre stanche strutture, o le sovrastrutture,  che rendono pesante il cammino e impediscono di andare avanti con passo agile.
 
D. È l’immagine di una Chiesa fin troppo immersa nel mondo e, soprattutto, nei suoi difetti.
 
Siamo noi “uomini della Chiesa” i primi a sfigurare il volto santo della nostra Madre Chiesa. È rimasta famosa la frase dell’allora Cardinale Ratzinger, pronunciata alla Via Crucis al Colosseo, sulla “sporcizia” nella Chiesa. Ma si ha l’impressione che alla “sporcizia” si sia aggiunta anche tanta zavorra. Penso al fenomeno subdolo e impalpabile, intorno al quale s’attorcigliano e s’annidano veri e propri mali che si chiamano, per esempio, carrierismo o centralismo, parenti, peraltro, molto stretti tra loro. Sono scandali che non aiutano quanti sono alla ricerca di Cristo.
Non possiamo nasconderci dietro paraventi inesistenti o ipocriti. Anche nella Chiesa il carrierismo non solo esiste, ma prospera. È sotto gli occhi di tutti che il carrierismo fa danni concreti, inquina i rapporti umani, avvelena gli ambienti in cui si sviluppa e matura.
 
Anche un certo centralismo burocratizzato, seppure su un livello diverso, non è da meno, quanto ai danni che procura, soprattutto alla Chiesa – comunione. Salva fatta la verità della Chiesa – istituzione, ci si chiede: quanta comunione si vive nella Chiesa? Alle volte si ha l’impressione di vivere in una fossa di leoni che si sbranano tra loro, come, con altre parole, ha ricordato Papa Benedetto XVI,  piuttosto che in una “Casa” di comunione, dove deve regnare l’amore di Cristo. Il centralismo, quando è condito di burocraticismo, diventa asfissiante. Abbiamo bisogno non di nuove procedure o riunioni, ma di testimoni e di guide.
La Porta della Fede, che è Cristo, ci deve indurre a respirare l’aria pura dello Spirito, e porre a fondamento del nostro agire pastorale Cristo Servo, che ha fondato la Chiesa – Serva e l’ha sposata dandole in dote la veste dell’umiltà per mettersi al servizio, senza orpelli e riserve, della nostra umanità così povera e affamata, che grida solo di essere ascoltata, accompagnata e amata. Dobbiamo ritornare ad essere la Chiesa di tutti e, particolarmente dei poveri mettendoli al centro delle nostre comunità cristiane. Essi ci aiuteranno ad arricchirci spiritualmente più di quanto noi possiamo aiutarli materialmente.
 
Non dobbiamo aver paura, come ci ha insegnato il Maestro Divino, di essere una Chiesa profetica e missionaria, che vuole aprire le porte delle sue sagrestie e camminare insieme agli uomini del nostro tempo, partecipando, non a parole, ma con i fatti di una carità incarnata, alle gioie e ai dolori della nostra gente.
È la Chiesa che non fugge dal mondo per paura, ma va nel mondo per portare Cristo, unico Salvatore. Diversamente, cadremmo nell’eresia della paura, che è il grande pericolo di oggi.
 
D. L’esperienza di una Chiesa particolare, che si è trovata a vivere un evento come quello del Giubileo diocesano, può forse essere utile in questo senso?
 
Possiamo dire che il Giubileo per Napoli, sulle orme del Grande Giubileo dell’Anno duemila, ha inteso dare una risposta vera alle esigenze di una città, espresse in maniera quasi disperata. Una risposta vera, perché pastorale e vissuta come Chiesa  preoccupata e attenta alle vicende della sua città e della sua gente.
 
Siamo scesi in strada e abbiamo alzato la voce; ma le nostre grida più forti sono state quelle sussurrate nel raccoglimento della preghiera. Solo la preghiera può cambiare veramente il mondo.
 
Abbiamo attraversato la città, ma abbiamo cercato le sue vie “di dentro”, il dramma delle case diventate sempre più dimore di famiglie inquiete, scosse dalla precarietà o dalla mancanza di lavoro, angustiate da livelli di vita sempre meno dignitosi e dalla sfida che, talvolta, diventa insidia diretta di una malavita alla ricerca di nuovi e più facili arruolamenti proprio nello sfacelo del tessuto sociale.
 
Abbiamo, soprattutto, amato. Perché chi non dà amore alla sua comunità, non ha neppure diritto di parola.
 
Se l’uomo non diventa la via per avvicinarsi sempre più a Cristo, la Chiesa smarrisce la propria strada; perde se stessa; si fa compagna di viaggio insignificante e senza meta, pronta a deviare dal proprio corso.
 
L’esperienza del Giubileo è stata preziosa soprattutto per la nostra Chiesa, perché ha indicato un modo concreto per amare e servire, ossia per essere fedeli a Cristo sul terreno dell’incontro e della condivisione dei bisogni di tutti. Neppure la fedeltà a Cristo può diventare un  tesoro da custodire in teche d’argento: perché va messa alla prova, va forgiata fino a farla espandere e farne lievito di un’autentica comunione ecclesiale. In altre parole, bisogna tradurre in opere lo spirito della grande apertura al mondo della Gaudium et Spes, le speranze suscitate dalla Lumen Gentium. E’ necessario attualizzare la commovente consegna che, nella celebrazione di chiusura, Papa Paolo VI fece al mondo, invitando tutti ad operare, ciascuno nel proprio ambito, al “rinnovamento di pensiero, di azione, di costumi, di forza morale, di gioia e di speranza, che è stato – affermò – lo scopo stesso del Concilio”. Dopo quasi mezzo secolo, credo con ancora più forza a questo programma.
 
Abbiamo varcato le porte della città, ma soprattutto abbiamo messo alle spalle quelle delle nostre sagrestie e dei nostri palazzi.
 
Simbolicamente, abbiamo portato in strada il profumo di Cristo e, allo stesso tempo, abbiamo spalancato i nostri templi perché accogliessero l’aria – talvolta aspra ma autentica – della vita vissuta.
Rievocando il Giubileo, anche quello diocesano di Napoli, non si può che pensare a quella stupenda consegna finale di Giovanni Paolo II, valida oggi più che mai per tutta la Chiesa, che vive la grazia del Sinodo e dell’Anno della Fede: quel “Duc in altum!” che allora sembrò un’esortazione e che oggi, forse, ha il valore di un grido profetico.
 
D.  Quale augurio alla Chiesa in stato di rievangelizzazione?
 
Amare Cristo Servo. Amare la Chiesa – Serva. Servire. È quanto basta!
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