Il Nunzio Apostolico in Italia, S.Ecc.Rev.ma Mons. Emil Paul Tscherrig, ha imposto il pallio nomine Summi Pontificis a S.Ecc.Rev.ma Mons. Domenico Battaglia, Arcivescovo Metropolita di Napoli.
Papa Francesco ha benedetto il Pallio nella Basilica di San Pietro il 29 giugno scorso, presenti appunto il nostro Pastore e gli altri 33 suoi confratelli arcivescovi nominati quest’anno.
Il Pallio, nella sua forma presente, è costituito da una stretta fascia di stoffa, tessuta in lana bianca, incurvata al centro, con due lembi neri pendenti davanti e dietro, e viene appoggiato sulle spalle sopra la casula.
Il Pallio è simbolo di un legame speciale con il Papa ed esprime, inoltre, la potestà che, in comunione con la Chiesa di Roma, l’Arcivescovo Metropolita acquista di diritto ed esercita nella propria giurisdizione.
TESTO DELL’ OMELIA DI DON MIMMO BATTAGLIA:
“Ci ritroviamo questa sera intorno alla stessa mensa, per lasciarci ancora una volta interpellare dalla Parola, per ricevere la forza di quel Pane di vita che il Buon Pastore ci dona in abbondanza, invitandoci a divenire noi stessi pane gli uni per gli altri. Permettetemi di rivolgere il mio saluto e il mio ringraziamento a Sua Eccellenza Mons. Emil Paul Tscherrig, Nunzio Apostolico in Italia, venuto tra noi per porre un segno, quello del Pallio, particolarmente suggestivo e simbolico. Attraverso di lui la mia personale gratitudine, quella della Chiesa di Napoli e di tutta la Metropolia, va a Papa Francesco, sempre attento ai problemi delle nostre Chiese, della nostra terra, sempre sollecito nello starci accanto e nell’accompagnarci con la sua preghiera e il suo insegnamento. Un caloroso saluto al Cardinale Sepe, la cui presenza è segno dell’affetto che continua a nutrire per la nostra Chiesa, e a tutti i vescovi della Metropolia di Napoli: il vostro esserci è segno dell’importanza del camminare insieme come fratelli, sotto la guida di Papa Francesco. Un saluto a tutti i fratelli vescovi: grazie della vostra presenza. Mi preme ringraziare, in questa occasione, i vescovi ausiliari, Lucio e Gennaro, per avere accompagnato i miei primi passi in mezzo a voi, per avermi sostenuto nella fase iniziale del mio cammino di vescovo nella Chiesa di Napoli, per avermi aiutato ad entrare con gradualità nelle relazioni e nelle strutture della nostra diocesi. Saluto e ringrazio anche i parroci e i sacerdoti tutti, cari al mio cuore, che sto conoscendo un po’ alla volta in questo tempo; e tutte le persone consacrate… Un saluto a tutti voi, venuti qui per pregare con me e per me, e per vivere insieme un momento unico e bello del nostro essere e sentirci Chiesa. Il pallio è un segno che lega il vescovo metropolita, e con lui i vescovi della Metropolia, al vescovo di Roma, che nella carità presiede, accompagna, guida le Chiese locali nella sequela di Cristo, Pastore della Chiesa, Samaritano dell’umanità. Il pallio, tessuto con lana di agnelli, è l’icona della pecora amata, cercata e trovata, che il Buon Pastore porta sulle spalle con tenerezza e amore, e diventa così anche il segno di una cordata di pastori che sono chiamati a riconoscere anzitutto se stessi come pecore del gregge di Cristo, per porsi poi a servizio delle altre pecore, nutrendole con tenerezza, guidandole con amore, difendendole con coraggio. Oggi è un giorno normale, feriale, un ordinario lunedì. Qualcuno, nei giorni scorsi, si è meravigliato di una data così feriale, lontana dai toni delle grandi solennità. Tuttavia, credo che non vi sia nulla di più solenne dell’ordinario, di più sacro del feriale, di più autentico della normalità: non è nelle ore delle grandi celebrazioni o dei grandi eventi che si gioca il cammino pastorale della comunità, poiché è nella discrezione feriale dell’ordinario che si pongono le trame evangeliche della tessitura del Regno. Il viaggio dell’evangelizzazione, infatti, non utilizza le grandi autostrade e le infrastrutture maestose, ma percorre i vicoli del quotidiano, le piazzette del rione, le strade percorse abitualmente dalla vita di tutti i giorni. In questo lunedì di fine settembre, la Chiesa non ci fa mancare però, esempi straordinari e luminosi a cui guardare per riflettere sulla qualità della nostra sequela e interrogarci sul significato più profondo della nostra pastorale. E così incontriamo S. Vincenzo de Paoli, pastore misericordioso e premuroso verso i piccoli e i poveri, da cui è stato egli stesso evangelizzato, riconoscendo nel loro volto, il volto stesso di Cristo. E accanto a lui, ritroviamo i Santi Medici Cosma e Damiano, detti “anàrgiri”, medici cioè che curavano gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio, spinti unicamente dalla carità di Cristo, la cui devozione è particolarmente sentita dalla Chiesa calabrese da cui provengo. Un prete, due laici. Ma partecipi, seppur in modo differente e originale, dell’unica missione pastorale della Chiesa: annunciare il Vangelo con la parola e con la vita, ponendo nel mondo segni concreti del Regno che viene! In un certo qual modo, oltrepassando forse l’intenzione originaria del simbolo, sento che il pallio che da oggi indosserò, non è qualcosa che riguarda solo me, ma è un segno rivolto a tutti: tutta la Chiesa, ognuno a partire dal proprio ministero e dalla propria personale vocazione, è chiamata a camminare insieme, cercando la pecora smarrita, caricandosi sulle spalle quella ferita, curando con tenerezza la più fragile e debole, divenendo per lei lo strumento di quella “cura del povero” che abbiamo cantato con il salmo responsoriale. Il pallio, inoltre, dice a chi lo indossa e a tutto il popolo di Dio anche un’altra cosa: stai attento, non puoi essere pastore se prima non ti riconosci pecora del gregge di Cristo! Non puoi guidare nessuno al Signore se prima non ti lasci guidare da Lui! Così, mentre ci rimanda alla nostra missione pastorale nei riguardi del mondo, il pallio ci invita a verificare la personale docilità con cui ci lasciamo condurre dallo Spirito! Il racconto di Matteo che abbiamo ascoltato dipinge, in un modo molto concreto e plastico, degli uomini che sono usciti da sé stessi per andare incontro ad altri uomini feriti, sofferenti, smarriti, incontrando in loro – senza che essi lo sapessero – la presenza del Signore stesso. Uscendo da se stessi, guardando oltre il proprio orticello hanno incontrato Cristo: chi resta chiuso nel proprio egoismo invece si mostra indifferente al Signore, al suo appello, alla sua chiamata. L’incontro con il Risorto, infatti, non è frutto di una programmazione d’agenda o di una mera pianificazione strategica ma si realizza quando l’uomo, uscendo da sé stesso, si dirige verso gli altri, incontrando le ferite, rispondendo ai bisogni, abitando la fatica e il dolore. Le ferite del tempo che viviamo, della nostra terra martoriata, della nostra società stanca, non sono nascoste a Dio, ma rappresentano piuttosto il sacramento dell’incontro con lui, il luogo della riconciliazione, il banchetto dove si condivide il pane eucaristico. Papa Francesco con insistenza ci ha ripetuto più volte la necessità di essere Chiesa in uscita, Chiesa ospedale da campo, Chiesa chiamata a portare la gioia del Vangelo, l’evangelii gaudium, tra le tristezze di questo tempo. Così, Vincenzo de’ Paoli ci racconta la bellezza dell’essere Chiesa in uscita, di una pastorale che non si chiude nei recinti sacri del tempio ma che si riforma, si rinnova e rinvigorisce incontrando la vita concreta degli uomini. È la concretezza di questa vita, fatta anche di dolore e di povertà, che spinge Vincenzo ad abbandonare ogni proposito di carriera, ogni piano ambizioso, ogni attaccamento al “si è sempre fatto così” per inventare un modo creativo e originale di essere prete, trasformando la propria pastorale di “conservazione” in una pastorale “missionaria” rivolta a tutti e in modo particolare agli ultimi. Il pallio, che oggi mi viene consegnato, deve rappresentare non solo per me, ma per tutti noi il segno della chiamata missionaria rivolta alla nostra Chiesa: quando siamo afferrati dallo scoraggiamento per gli scarsi risultati pastorali o peggio ancora siamo contagiati dall’assuefazione ad una ritualità abitudinaria e senza spirito, ricordiamoci di questo segno posto sulle mie spalle visibilmente, ma che allo stesso tempo – direi per una solidarietà simbolica – è posto anche sulle vostre! E chiediamoci: sono in ricerca della pecora smarrita? Sono consapevole che se non la trovo all’interno del mio ovile, devo avere il coraggio di uscire senza star fermo ad aspettare che torni da sola? Sono anche capace di riconoscere cosa non ha funzionato, il motivo per il quale al di là della sua fragilità ha abbandonato il gregge? Vincenzo de’ Paoli, convertito da coloro che erano fuori il recinto della sua chiesa, dai poveri a cui nessuno badava, ci aiuti a trovare le risposte giuste e a metterle in pratica. “E ritrovata la pecora se la mette in spalla e tutto contento chiama gli amici, dice loro: rallegratevi con me”. La pecora non torna all’ovile da sola, la pecora non si converte, è semplicemente trovata, trovata perché perduta, trovata non perché si converte, ma perché Lui, il pastore, si è convertito a noi, perché il Padre per primo si è convertito a me. “Dove l’uomo dice perduto, Dio dice trovato. Dove l’uomo dice finito, Dio dice rinato” (Bonhoeffer). I medici Cosma e Damiano, fratelli afferrati da Cristo al quale rimasero fedeli sino al martirio, medici premurosi e disinteressati, ci ricordano che davvero la Chiesa è chiamata ad essere un ospedale da campo, in cui il comandamento dell’amore si traduce nella cura vicendevole e nell’attenzione rivolta alle ferite del tempo e della terra che il Signore ci chiede di abitare. Nel pallio, alcune croci indicano le ferite del Crocifisso Risorto, quelle ferite diventate per tutti noi sorgente di guarigione e pozzi di luce. Come vescovi, preti, operatori pastorali siamo naturalmente portati – e meno male – a guardare le ferite degli altri, spinti dall’amore del Signore che ci invita ad essere per loro Samaritani buoni e Pastori premurosi. Ma è importante che non dimentichiamo mai le nostre ferite: esse ci salvano dalla tentazione di crederci perfetti, ci preservano dall’illusione di essere indistruttibili, ci consegnano alla necessità che abbiamo non solo di curare gli altri, ma di essere curati. Così, la nostra Chiesa è chiamata ad essere un ospedale da campo non solo per il mondo esterno, ma anche per le tante persone che la compongono, senza distinzione di ministero e vocazione. Sì, fratelli e sorelle, perché siamo tutti smarriti e tutti ritrovati, tutti feriti e tutti guaritori. L’apostolo Paolo ci ha ricordato che “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti”. Per questo le nostre debolezze e le nostre ferite non devono mai essere vissute come un ostacolo all’evangelizzazione, o considerate come un freno ingombrante alla nostra missione pastorale! Esse sono piuttosto l’epifania della fragilità dell’amore e del bisogno di cura che esso richie- de! Le nostre fragilità sono il segno concreto che la salvezza non è oggetto di possesso, non è una realtà che ci costruiamo da soli, ma è dono sempre inatteso e sovrabbondante di colui che ci ha amato e ha dato sé stesso per noi, per ciascuno di noi, con il suo volto, la sua storia, il suo nome! Prima di ogni cosa, prima di ogni teorico valore, prima di ogni altro ideale ci sono i nomi, i volti e le storie. Non “i poveri generici”, ma quelli che incontro. Non “i malati”, ma i volti segnati dal dolore, non “i problemi sociali”, ma la storia concreta di chi ha incrociato il mio cammino. Dio custodisce nel cuore un sogno per ciascuno di noi. E Dio non sogna mai da solo: sogna conte e ti vuole protagonista del suo sogno. Il sogno si concretizza, allora, nell’essere Chiesa che intercetta, che va incontro alle fragilità e alle singole storie. Una Chiesa libera, povera, una Chiesa che non ha paura di percorrere le strade difficili e strette, una Chiesa che sa gioire e condividere, una Chiesa che sa commuoversi e meravigliarsi davanti alle opere di Dio che si realizzano nel nostro quotidiano. Una Chiesa in uscita, samaritana. Una Chiesa, più che assertiva, discepola della fragilità. Non la Chiesa che giudica o la fa da padrone sulla fede degli altri, ma la Chiesa della compassione, la Chiesa che conosce la fatica, perché entra nelle case, non parla da fuori. Da come parla, soprattutto dei lontani, dei cosiddetti lontani, capisci se una Chiesa li conosce o no. Chiesa che non ha nulla a che fare con coloro che caricano di pesi insopportabili i piccoli, i poveri e gli oppressi, Chiesa che ne rivendica anzi la dignità, perché ogni essere vivente porta in sé l’immagine di Dio. Chiesa che non ha la fretta dei documenti, ma, in forza del suo sentirsi sorella e serva, conosce l’arte di rallentare il passo. Porta infatti nel suo cuore la fatica dell’ultima pecora, quella gravida e quella ferita. Chiesa in ascolto dei piccoli. Solo se sapremo incamminarci verso questi sentieri ritroveremo la bellezza di un Vangelo “sine glossa” e la sorgente della gioia che ne scaturisce, l’ evangelii gaudium che colora il mondo e il tempo! Ricordo ancora le parole del maestro ed amico, don Tonino Bello, quando spesso ci ripeteva: “Solo chi sogna può evangelizzare”. Una Chiesa povera di sogni è una Chiesa smarrita, che fatica a trovare il senso e la direzione, rischiando di camminare in modo asfittico in una quotidianità senza slancio, fatta solo di riti e di abitudini. Dico di più: una Chiesa che non sogna non è Chiesa, è solo “Apparato”. E soprattutto, in questo particolare momento storico, la Chiesa non può non riappropriarsi del suo sogno e prendere il largo. Per questo il pallio che da oggi indosserò, non è simbolo di un potere o di un onore, ma è piuttosto il segno di una Chiesa che desidera essere gregge di Cristo e collaboratrice del suo sogno! Una Chiesa che desidera uscire per cercare la pecora smarrita, che vuole essere luogo di cura per ogni ferita, motivo di gioia perché luogo di incontro con Colui che ci salva con il suo infinito amore, facendo di noi, vecchie ciabatte malandate, calzari preziosi di angeli! Fratello, sorella, questo è il sogno di Dio per tutti noi. Un sogno che la sua Parola, se accolta, è capace di realizzare nella mia vita, nella tua vita. Anche tu, fratello povero, escluso, abbandonato, solo, affamato, oppresso… anche tu ascolta, gioisci! Questa Parola si dona a te e in te e per te realizza il sogno di Dio! Non chiuderti, non nasconderti, non vergognarti, non disperare! Tu, con la tua presenza, con il tuo rialzarti, con la tua dignità di fratello puoi annunciare al mondo che il Signore ama, si prende cura di tutti, non abbandona nessuno. Tu, con la tua capacità di leggere la storia dalla parte di Dio, puoi guardare con tenerezza tanti che si sentono abbandonati e che hanno perso il senso della giustizia. Tu puoi insegnarmi ad amare. Tu puoi insegnarmi a condividere la vita. Tu puoi insegnarmi a rialzare. Tu puoi insegnarmi la speranza. Tu puoi indicarmi il futuro. Tu puoi ricordarmi che l’amore resta. Che questo amore possa donare alla Chiesa il coraggio di uscire dagli accampamenti tutte le volte che si attarda all’interno delle sue tende dove non giunge il grido dei poveri. Nomade come Maria, che porti nel cuore una grande passione per l’uomo. Vergine gestante come Maria, che apprenda la geografia della sofferenza. Madre itinerante, come Maria, che sia piena di tenerezza verso tutti i bisognosi e di nient’altro sia preoccupata che di presentare Gesù Cristo, come Maria fece con i pastori, con Simeone, con i magi d’oriente e con mille altri anonimi personaggi che attendevano la redenzione.”