C’era una volta la città solidale


Quante Napoli vengono fuori dalle immagini impietose delle telecamere, che raccontano storie che non avremmo voluto mai sentire? Quale Napoli immaginerà l’osservatore vedendo l’indifferenza dei bagnanti per le ragazzine rom annegate nei giorni scorsi a Torregaveta? Quale città gli sembrerà quella dove gli immigrati africani vengono rifiutati dalla nostra gente? Pensavamo che la nostra terra fosse quella delle canzoni, che un tempo narravano di emigranti che partivano per «terre assai luntane», sicuri che al loro ritorno in patria sarebbero stati riaccolti con calore e allegria.
Credevamo che la nostra gente, abituata alla sofferenza della lontananza e a dividere il poco e a godere di niente, fosse capace di accogliere i forestieri. Una terra, la nostra, che, da sempre occupata da nuovi comandanti, mai si è lasciata vincere nella sua irripetibile filosofia. Oggi una Napoli irriconoscibile e lontana dai clichè romantici di una volta si presenta sulla scena del mondo. Una Napoli che tradisce Napoli, ma che vale la pena raccontare se si vuole avere il coraggio di una verità che diventa premessa di pace. Il primo passo per dirsi finalmente liberi è aprire il cuore al vero ed è vero che un sentimento d’insopportabilità attraversa la nostra terra. «Insopportabilità», questa la parola, che ormai vince sulle altre. I termini razzismo, pregiudizio, che tanti useranno per descrivere quell’atteggiamento di inospitalità nei confronti dei diversi, non sono idonei a descrivere lo stato d’animo della nostra gente nei confronti di quanti, partiti come noi da «terre assai luntane«, cercano da noi una riposta di giustizia. Il coraggio dei grandi ideali, le grandi sfide, che si basano sull’assioma «tutti gli uomini sono fratelli», passano attraverso parole condivise, comprensibili, che lasciano il segno perché emozionano, passano storie. «Accoglienza» è una parola enorme per una terra che a sua volta non si sente accolta, che si sente vinta e, come spesso accade, cerca altrove la giustificazione alla sua insoddisfazione, alla sua frustrante condizione, che genera angoscia. Un’angoscia tale che determina la formazione di gruppi che, provocati dall’angoscia stessa, hanno bisogno di costruirsi un nemico comune, un capro espiatorio, contro cui scagliarsi. La storia ha spesso insegnato che chi si sente «ultimo» più che lottare contro i primi per affermare i propri diritti, lotta contro i suoi pari per conquistare uno straccio di spazio e diventare almeno «penultimo». È troppo facile cercare untori per giustificare la peste. Non di rado ho assistito alle quotidiane liti tra immigrati e napoletani. Provate a camminare tra la gente che fatica a guadagnarsi da vivere e sentirete le loro ragioni: «Sono venuti per rubarci la nostra fame.» Quale ideale può essere vincente, se non quando è reso fruibile? Come potremo raccontare la differenza, se non ci sentiamo uguali? Se in passato l’ospitalità, che ha reso proverbiale l’accoglienza della nostra terra, non è mancata, in realtà abbiamo accolto chi veniva a «dare», non a «prendere». Accogliere mercanti e turisti è facile, essere generosi con gli ultimi è intraprendere sentieri di compassione difficili. Ma nessuno si illuda: ciò che sta accadendo qui da noi prima o poi capiterà altrove. È nostro vanto e nostra condanna anticipare le contraddizioni del nostro tempo: se la spazzatura ha rovinato la nostra immagine, esportando un quadro vergognoso in tutto il mondo, qualcuno ha colto che il problema si riproporrà altrove. Napoli è diventata, suo malgrado, un laboratorio per imparare a risolvere le emergenze. La storia di oggi, degli immigrati non accolti, ci riguarda, ma presto lo stesso vento dell’insopportabilità arriverà in altre metropoli. La minaccia della miseria separa gli uomini, l’angoscia per la perdita dello spazio li disperde e li trasforma in atomi in lotta tra loro. Solo stando alla stessa tavola, seduti insieme da pari, si scoprirà che il vero nemico è la fame e non il commensale. Gennaro Matino

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