Il ciclo della lectio divina quaresimale di quest’anno si concentrerà sul Libro di Rut, il più piccolo dei libri storici che troviamo nell’Antico Testamento. Sono appena quattro capitoli, dove si narra la storia di una donna, una straniera, la cui vicenda si svolge all’epoca dei Giudici d’Israele. Perché raccontare la storia di questa donna, per di più straniera? Il nostro libro fa parte dei cosiddetti “cinque rotoli”, le Meghillòt, che si leggono nelle principali feste dell’anno liturgico ebraico. Rut si legge nella Festa delle Settimane, ossia la Pentecoste. È un racconto breve, nel quale vi è un senso profondo dell’azione provvidenziale di Dio.
Impariamo ad apprezzare l’azione divina che si rivela nella storia, nonostante la nostra miseria, come fece Ludovico d’Angiò, venerato nella Chiesa parrocchiale di Marano. Questo santo rinunciò senza rimpianti al trono per seguire il Cristo sulle orme di Francesco d’Assisi.
Momento della Lectio
Il Libro di Rut è un piccolo gioiello letterario, composto quasi certamente nell’ultimo trentennio del quarto secolo a.C. da un autore che non condivideva la chiusura del popolo ebraico. Egli si rende conto che Israele ha bisogno di aprirsi senza perdere la sua identità, perché anche fuori di esso si può trovare il bene.
Oltre a questo, il libro esalta anche i valori familiari e della solidarietà, nonché il protagonismo femminile.
Al tempo dei giudici, ci fu nel paese una carestia e un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda nei campi di Moab [v. 1]. Il Libro di Rut comincia come la storia di una famiglia costretta all’emigrazione dalla povertà. Andare in un paese straniero, abitato da una popolazione disprezzata da un ebreo, come quella moabita, non fu certamente facile. In questa storia sono importanti anche i nomi delle persone: cominciamo dal capo-famiglia, Elimèlec, un raro nome che vuol dire “il mio Dio è re”; sua moglie si chiama Noemi, che significa “mia delizia”, “mia dolcezza”.
Poi Elimèlec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli. Questi sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut [vv. 3.4]. Il racconto, molto rapidamente, ci dice che l’elemento maschile della famiglia viene gradualmente eliminato. Muore Elimèlec e, dopo il loro matrimonio con due donne moabite, anche i figli della coppia. Evidentemente non era quello il loro futuro. I figli di Noemi si chiamavano Maclon, che indica “l’essere debole”, e Chilion, ossia “essere esaurito”. È chiaro che non è nella terra di Moab il luogo in cui Dio vuole aprire una storia nuova.
Allora intraprese il cammino di ritorno dai campi di Moab con le sue nuore, perché nei campi di Moab aveva sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli pane [v. 6]. Per Noemi non c’era null’altro da fare, perciò con molta onestà parla alle sue due nuore, invitandole a farsi una nuova vita finché ne hanno l’opportunità. Ella ha perso marito e figli.
La sua vita, come dice nel v. 13, è cambiata: «No, figlie mie; io sono molto più amareggiata di voi, poiché la mano del Signore è rivolta contro di me». Non ci sfugga il riferimento al significato del suo nome: abbiamo già detto che vuol dire “mia dolcezza”, ma Noemi è grandemente amareggiata per i ripetuti lutti che l’hanno colpita. Lo dirà nel v. 20 alle donne di Betlemme: «Non chiamatemi Noemi, chiamatemi Mara, perché l’Onnipotente mi ha tanto amareggiata! ». L’unico suo desiderio è ritornare nella sua patria, perché era terminata la carestia e poteva sperare nella clemenza di qualche parente per trascorrere i suoi ultimi giorni di vita. Il Signore si era volto con benevolenza verso il suo popolo e il piccolo centro di Betlemme di Giuda, dal quale Noemi con la sua famiglia erano partiti in cerca di fortuna tanti anni prima, era tornato a essere ciò che significa il suo nome: Bet-lèchem, “casa del pane”.
Orpa si accomiatò con un bacio da sua suocera, Rut invece non si staccò da lei [v.14]. La descrizione della scena del commiato è commovente. Noemi doveva essere una buona suocera se le due nuore non volevano staccarsi da lei, che cerca di convincerle a farsi una nuova vita tra il loro popolo. Ella non ha più altro da offrire e cerca di convincerle che l’unico atto ragionevole è lasciarla andare. Dopo varie insistenze una delle due nuore, Orpa, si convince. Non dobbiamo giudicarla male: Noemi l’ha convinta e lei ha fatto ciò che era più ragionevole. Per una donna, infatti, non era semplice ricominciare da capo dopo essere diventata vedova.
Ma Rut no! Non si fa convincere. Questa donna moabita, cioè pagana, idolatra, ha nel suo nome scritto il suo destino. La radice ebraica da cui deriva Rut vuol dire “dar da bere in abbondanza”, quindi anche “rinfrescare”.
Il suo nome, allora, può essere tradotto così: “sollievo”, “conforto”, “consolazione”.
La speranza per Noemi non è soltanto il ritorno al suo paese d’origine, ma anche l’affetto di questa donna, che diventa come una figlia per lei.
L’anziana e amareggiata betlemita dirà entrando nella sua città di essere partita piena e di essere tornata vuota, accusando il Signore di tale sciagura. Ella non sospetta che Dio le sta preparando una sorpresa tale da consolarla e riempirle di dolcezza la vita.
Ma Rut replicò: “Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te [
]; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio [v. 16]. Nel versetto 16 Rut parla per la prima volta.
Questa donna esprime una fermezza e una determinazione impressionante. Ha fatto una scelta irreversibile: seguire sempre e dovunque Noemi. Non si considera sciolta dall’impegno di solidarietà verso l’anziana suocera a causa della morte del figlio di costei e suo marito.
È sorprendente, poi, ciò che dice: il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Rut ritiene di essere diventata “giudea” e, di conseguenza, si è gettata alle spalle anche i suoi dèi. È pronta a cominciare una nuova vita, a rinascere, a trovare un futuro nel cambiamento.
Momento della Meditatio
La lectio che abbiamo fatto ha illustrato il senso del brano e ci ha permesso di raccogliere tutto quello che si rivela utile per il passo successivo, la meditatio, durante la quale avviene il confronto con altre parti della Scrittura e, soprattutto, con la nostra vita cristiana.
La proposta è di concentrare l’attenzione su due temi: l’emigrazione e la lontananza del Signore. L’emigrazione. Si tratta di una costante nella storia d’Israele, come sappiamo dalla Bibbia. Infatti, già Abramo, il capostipite, partì dalla sua terra perché chiamato dal Signore; di suo nipote Giacobbe è nota la fuga in Mesopotamia e la discesa in Egitto, dove ritrovò suo figlio Giuseppe, un emigrante che aveva fatto fortuna in quella fertile terra. Il Deuteronomio, al v. 5 del capitolo 26, riassume così l’identità di questo popolo:
«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa». Come forestieri abitarono nella terra di Gosen, per pascolare il loro bestiame e da lì partirono guidati da Mosè.
L’altra grande esperienza di emigrazione avvenne secoli dopo, quando furono deportati da Giuda e da Gerusalemme i capi, i sacerdoti e i funzionari, per essere condotti a Babilonia, da cui una parte tornò in patria per ricostruire la nazione. Molti tra i giudei, però, rimasero a Babilonia e si sparsero per tutti i paesi del Mediterraneo, fondando numerose e prospere comunità, che patirono non raramente persecuzioni e soprusi. È stata una storia lunga e dolorosa, svoltasi lungo le strade dell’Europa e che ha avuto un epilogo tristissimo nella Shoà.
Anche il popolo italiano ha vissuto sulla propria pelle il disagio e l’umiliazione dell’emigrazione.
Ogni famiglia, specialmente qui nel Sud, ha un parente che è partito per un paese lontano sperando di trovare una vita migliore. Purtroppo, ancora oggi tanti giovani e padri di famiglia sono costretti, dalla mancanza di lavoro e di prospettive, a lasciare la propria terra per crearsi una vita altrove. E così la terra, tanto cara e bella, diventa “matrigna”.
Poco memori di tale dramma, siamo a nostra volta poco accoglienti nei confronti di coloro che vengono da paesi di miseria, dove manca il pane e la libertà.
Dimentichiamo in fretta quello che diceva il sommo poeta, che subì l’onta dell’esilio.
Ne parla nel canto diciassettesimo del Paradiso, ai versi 55-60: «Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e l’ salir per l’altrui scale».
Ecco il secondo tema: la lontananza del Signore. Essa emerge con chiarezza nel nostro brano. Noemi riflette sulla sua esistenza, che contraddice il significato del suo nome, perché ha dovuto lasciare con la famiglia il luogo natio e andare in un paese straniero a cercare lavoro.
Lì ha perso il marito e i figli, rimanendo sola e senza speranza, troppo anziana per cominciare da capo. Quanti motivi ha Noemi per lamentarsi! Il Signore è stato molto avaro di soddisfazioni nei suoi confronti, perché la sua vita è stata “inutile”, senza frutto e, soprattutto, senza una discendenza. Che cosa resterà del suo nome e di quello di suo marito tra le generazioni future? Dio ha davvero nascosto il suo volto? E quante “Noemi” ci sono ancora oggi? Mogli e madri che hanno perso i loro mariti e i loro figli in un incidente sul lavoro o stradale, oppure nel dramma della droga o della malavita, perché dediti al vizio del gioco o in altre miserie e bassezze, per malattie incurabili
Quanti lutti, quanto dolore! Viene in mente il grido di Gesù sulla croce: «”Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”,
che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”». Un grido al quale non sembra esserci risposta, perché Dio non reagisce, non interviene. C’è come un silenzio “assordante”, o come una “notte”, dove l’assenza di Dio è pesante, oscura e incomprensibile. È in tali momenti che dovremmo imparare a dire col salmista: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me».
Momento dell’Actio
Passiamo ora agli impegni concreti che possono qualificare il nostro cammino in questa Quaresima 2014. In primo luogo, occorre che la Chiesa di Napoli, attraverso le sue comunità parrocchiali e le diverse espressioni della sua presenza nel territorio, s’impegni sempre più a farsi prossima ai fratelli che vengono da lontano. Molte volte sono cristiani come noi, sono nostri fratelli in Cristo attraverso il Battesimo. Altre volte non condividono la nostra fede, ma sono tuttavia esseri umani e, come tali, hanno diritto a vivere dignitosamente.
Non dobbiamo guardare in essi il colore della pelle o l’appartenenza religiosa, ma soltanto un fratello o una sorella che ha bisogno della solidarietà amorevole di chi sa amare l’altro come se stesso.
Inoltre, non basta soccorrere le pur importanti ed evidenti ferite materiali, ma saper andare anche oltre, per curare le ferite interiori di chi si sente abbandonato da Dio, lontano da lui perché non risponde e sembra sordo alle richieste d’aiuto. È bello fare questo se ci accorgiamo di avere accanto chi è piagato e vede che ci chiniamo su di lui senza attendere la sua richiesta d’aiuto. Gesù ci insegna a farci prossimi, non ad aspettare la richiesta del povero. Dovremmo essere noi com’è stata Rut per Noemi: un sollievo, una consolazione, “acqua fresca” quando la “gola è secca” per il troppo gridare al Signore. In tal modo, potremo essere noi quegli strumenti di cui il Signore si serve per rispondere a chi lo invoca ma non si sente ascoltato ed esaudito.* Arcivescovo Metropolita di Napoli