Città malate e periferie esistenziali

Le città contemporanee sono malate, ha detto il Cardinale Crescenzio Sepe nel corso dell’intervento svolto oggi al Meeting internazionale della Comunità di Sant’Egidio, che si conclude questa sera a Roma e che ha avuto come tema generale  “Il Coraggio della Speranza. Religioni e Culture in Dialogo”. La grande città contemporanea -ha precisato-  sembra segnata, più che da scenari avveniristici e digitali, da inquinamento, slums, colline di spazzatura, squallore.
Un tempo – ha proseguito l’Arcivescovo di Napoli – nelle culture occidentali, la città è stata a lungo immaginata come spazio dell’integrazione sociale e culturale.
Oggi la città è lo specchio della profonda crisi delle economie e delle società: la crescente individualizzazione, la scarsità delle risorse ambientali, l’aumento delle diseguaglianze sociali, che nelle aree metropolitane diventa insopportabile e, a lungo andare, molto pericoloso.
Possono grandi religioni mondiali sfuggire al confronto con la grande città?, si è domandato il Cardinale Sepe. Di più, possono ignorare le malattie della città? Papa Francesco in questi mesi ci ha richiamati più volte alla necessità che la Chiesa ed i cristani siano capaci di presidiare le “periferie umane ed esistenziali” del nostro mondo. Lo diceva già nel suo intervento nelle riunioni dei Cardinali prima del Conclave: «Si deve uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala».
Si ammala la Chiesa e si ammala anche la città. Una città in cui la periferia è lontana, irraggiungibile, dimenticata, è una città malata. Più volte mi è capitato di sentirmi dire, in questi anni di ministero pastorale nella città di Napoli dai ragazzi di Scampia: «Eminenza, ma siamo napoletani anche noi?».  Non è una domanda banale. È una provocazione che va al cuore del problema: l’appartenenza è questione di parole, di fatti. “Periferia” non è solo un luogo; può diventare un fatto, un irrimediabile fatto di ingiustizia.
La periferia dell’esistenza è quella delle persone sole, dei malati, dei non autosufficienti, delle persone abbandonate. Noi siamo tutti molto auto-centrati: su noi stessi, sulla nostra città, sul nostro quartiere, sulla nostra professione, siamo figli di soggettività portata all’estremo livello, in una pervasiva esaltazione dell’io, che porta alla “morte del prossimo”, secondo la felice intuizione di Luigi Zoja.
Non a caso nella sua prima visita ad una parrocchia di periferia il Papa ha detto che la realtà si capisce meglio non dal centro, ma dalle periferie.
Nel mio servizio alla Chiesa, ho attraversato in lungo e in largo il mondo. Di periferie ne ho viste tante: bidonville, slum, favelas, baraccopoli, bassifondi, le banlieue e i bronx dei Paesi industrializzati. Mondi senza speranza di vita per gli adulti, per i loro figli e, forse, per i figli dei loro figli. Qualcuno potrebbe scandalizzarsi nel sentire che anche a Napoli ci sono le favelas, ma sarebbe ancora più scandaloso non denunciare il fatto che, mentre in Brasile si sta affrontando il problema della povertà, o lo si è fatto di più negli ultimi anni, dalle nostre parti, a causa di politiche di abbandono, stanno aumentando i ghetti e dilatandosi le periferie.
Ma Dio non abbandona i poveri. Scampia, periferia per tanti aspetti dimenticata dalla città, non è periferia per la Chiesa di Napoli. La Chiesa a Scampia è una presenza radicata nel territorio ed è vicina alla gente, a stretto contatto con i dolori e le gioie delle famiglie, voce di coloro che non hanno voce. Per questo sono convinto che partire da Scampia, o meglio ripartire da Scampia e dalle tante periferie geografiche ed esistenziali del nostro mondo, è una scelta di speranza. Lì davvero, “la pietra scartata dai costruttori” o sgretolata e resa fragile da chi voleva saccheggiare dignità e coraggio, può diventare la “testata d’angolo” di un’autentica rinascita morale e materiale. Le periferie sono la nostra missione e la nostra casa.

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