La Madonna del Rosario in argento massiccio di Benedetto XVI è stata aggiudicata a 41.500 euro, la teiera dell’Azerbaijian del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ne ha fruttati 7.100, gli orologi Ebarhard e Tissot sono stati battuti a 6.300 euro, mentre la maglia con le firme dei calciatori del Napoli ha raggiunto quota 1000 euro. Euro più, euro meno, il risultato finale è una cifra quanto mai rispettabile: 102mila euro raccolti, in nome della vita, da destinare al progetto di implementazione della terapia ipotermica nel neonato asfittico per la prevenzione del danno neurologico e della paralisi cerebrale infantile per l’Ospedale Annunziata di Napoli.
Concretezza, carità e solidarietà, le parole d’ordine. Il Cardinale Sepe, nel corso dell’intenso e impegnativo “Giubileo per Napoli”ci ha invitato a leggere i segni di speranza e di volontà di riscatto, che vanno perseguiti con costanza e impegno coerente e fattivo, e a proposito dell’asta di beneficenza fa notare che questa ha «riportato alla luce un valore tipico della nostra gente e della nostra cultura: il riconoscimento e il rispetto della dignità di ogni essere umano creato da Dio».
Parole quanto mai appropriate.
Ma è bene ricordare che l’impegno verso gli ultimi è condizione necessaria, ma non sufficiente per trasmettere una vera cultura della solidarietà. Nell’aiuto ai più deboli, infatti, non bisogna trascurare la cultura della legalità, che rende più sicura e serena la vita civile. Ecco perché di fronte allo scoraggiamento e alla delusione, l’Arcivescovo invita ad un impegno personale e comunitario che sostenga una seria ricostruzione delle coscienze e una sana azione di educazione spirituale, civile e culturale. Limitarsi a fare l’elemosina non affronta, né tantomeno risolve i problemi. Chi si mette «a servizio», invece, compie una scelta di trasparenza che gli permette di essere in prima fila contro ogni abuso, dimostrando coraggio e decisione.
C’è un futuro che ci attende come Chiesa, un futuro che ci rende capaci di riscoprire la forza del Vangelo, che contesta le sicurezze egoistiche dell’uomo ma ne fonda altre, più stabili, nella fede. Una Chiesa che accetta di vivere in situazione, attenta alle realtà concrete, mai in fuga, ma in difesa della persona, dell’uomo concreto, di chi non ha parole.
Una Chiesa che non proclama o esalta se stessa, ma che rivela al mondo il mistero di Dio e si fa portatrice di salvezza e speranza.
Una Chiesa che addita agli uomini la vita futura, dono di Dio, ma proporzionato all’impegno espresso in questo mondo. Una Chiesa che a noi chiede l’umile ma coraggioso gesto di affermare con continuità «sulla tua parola getterò le reti», nella fatica dei molteplici tentativi di annunciare e fare giustizia (chiesa profetica), nella promozione di opere e locande di accoglienza e condivisione (chiesa regale), nell’animazione della comunità, per far crescere sempre più la testimonianza di carità e una speranza di popolo (chiesa sacerdotale).
Questo ci ricorda la straordinaria attualità del Concilio Vaticano II, la grande novità che la «Pentecoste del nostro tempo», secondo la felice definizione di uno dei suoi testimoni, il Vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi, ancora oggi rappresenta per tutta la Chiesa a cinquant’anni dalla sua convocazione.
«Il Vaticano II – scrive Palazzini – ha avuto una finalità nuova, almeno nella sua enunciazione e intonazione, un fine pastorale.
È chiaro che anche il Vaticano II si è imbattuto in temi dommatici, perché in fondo ad ogni questione pastorale giacciono una o più questioni dogmatiche; come è vero che ogni formulazione di indirizzo pastorale sfocia in definitiva in una norma. Ma questo Concilio ha inteso affrontare tutto con una visione pastorale:
far sì che il tono apostolico ispirasse tutte le sue decisioni e si manifestasse per ogni verso». E il Cardinale Sepe, a proposito del “nuovo volto di Chiesa”, annota nella Lettera pastorale a conclusione del Giubileo:«Sempre più il Concilio Vaticano II si conferma come la “grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel XX secolo” (NMI, 57, 44). Il nostro Giubileo ha cercato di far rivivere l’immagine conciliare della Chiesa come popolo santo di Dio». E ancora, affermava al Plenum diocesano del 28 giugno 2011: «Proprio seguendo l’ammaestramento del Concilio non dobbiamo dimenticare che esiste un naturale rapporto e una vicendevole chiarificazione tra cristologia, ecclesiologia e antropologia: la Chiesa, popolo di Dio, assume il modello del Cristo incarnato come espressione della sua natura di Chiesa missionaria e serva del Vangelo e, per ciò stesso, al servizio dell’uomo e di tutti gli uomini». L’immagine di Chiesa missionaria ci indica la traccia per la Chiesa del terzo millennio che, interrogandosi sulla ricezione del Concilio, può accorgersi come, «a mano a mano che passano gli anni, i testi conciliari non perdono il loro smalto, né il loro valore».
É questo il senso più profondo di quella «spiritualità della speranza», tracciata dal nostro Arcivescovo nella sua ultima Lettera pastorale «Per amore del mio popolo», riferita non a una «cosa» ma a uno «stile» preciso di vivere, al modo cristiano di essere, così come lo troviamo nell’esperienza attestata dalla sacra Scrittura, nei santi e nella tradizione spirituale della chiesa napoletana, che ci consente di individuare i tratti tipici della speranza cristiana che, abbozzati in quelli della nostra esperienza umana, ne dicono il senso ultimo e vero, conferendo loro valore e dignità. Una speranza come responsabilità e vigilanza: attesa di qualcosa che si è già assaporato e da cui si è profondamente conquistati.