Fate presto! Ritornano, con insistenza, le parole che accompagnano ogni tragedia umana. Parole accorate, richieste di aiuto, appelli a non tardare.
Sono parole che denunciano una necessità, una urgenza; che stanno a rappresentare non un semplice malessere, ma una situazione di grave pericolo, lesistenza di una vera e propria malattia sociale che, giorno dopo giorno, assume le dimensioni di una vera epidemia, anche mortale, come purtroppo sta diventando ai nostri giorni la povertà.
Le cifre che circolano in questi giorni dicono tutto: oltre tre milioni i licenziati; circa quattromila le imprese che hanno interrotto la propria attività; si profilano tempi difficili per i cassintegrati per la cui indennità al momento non ci sono fondi; potrebbe essere alle porte lattivazione della cassa integrazione per tanti altri.
Intanto, cè il dato allarmante della disoccupazione storica, accentuata e aggravata da schiere di giovani che non riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro e delle professioni.
La conseguenza è che una famiglia su cinque è povera. Si tratta di dati che fanno rabbrividire e intristicono non poco. Di fronte a questi numeri anche il rapporto annuale proposto dalla Chiesa italiana sulle povertà impallidisce.
Siamo, infatti, in una situazione che definire drammatica non costituisce affatto una esagerazione. La povertà si va diffondendo sempre più nella nostra società. E non è la povertà dei senza fissa dimora, delle persone che sono state abbandonate da tutti o che hanno scelto di vivere in solitudine.
Poveri non sono più e soltanto quelli che siamo abituati a vedere sui gradini delle chiese, sotto i portoni degli edifici e nelle stazioni ferroviarie, agli angoli delle strade o nei pressi dei semafori cittadini.
I poveri non sono nemmeno soltanto quelli che, nellimmaginario collettivo, vivono in paesi lontani, nel terzo mondo, nelle aree dove ci sono guerre e sfruttamento, nelle realtà ai confini della giungla dove mancano acqua, assistenza sanitaria e generi di prima necessità. Persone alle quali, attraverso organizzazioni umanitarie, facciamo arrivare segni di aiuto concreto.
Oggi, paradossalmente, per tanti anche i piccoli atti di solidarietà sono diventati insostenibili. Sì, perché ormai i poveri ci sono e in gran numero anche se non riusciamo a identificarli e sono quelli che si nascondono nelle case, che si chiudono nel proprio isolamento, che in alcuni casi vediamo portarsi timidamente nelle strade o fermarsi accanto allazienda o allesercizio commerciale.
Purtroppo, oggi di povertà si muore e non per mancanza di nutrimento, ma per vergogna, per pudore, per la difesa della dignità personale, perché non si ha come pagare i debiti o le tasse, perché non si ha nulla da offrire e da dire a moglie o marito e figli. Siamo alla esasperazione.
Sono tantissimi e sempre di più quelli che ogni giorno bussano alle porte delle nostre parrocchie e dei nostri conventi. Non basta lascolto, la parola di incoraggiamento e di conforto. Linvito alla speranza è poco incisivo e non viene raccolto, perché ci sono risposte urgenti da dare in famiglia.
Per tanti non cè alcun reddito, benché minimo; manca il sostentamento; mancano i soldi per la pigione e i servizi essenziali. Mancano il latte e le medicine. Anche la tutela della salute sta diventando qualcosa che non ci si può permettere.
E le conseguenze si hanno sui soggetti più deboli del nucleo familiare: sui bambini, sui giovani, sugli anziani.
Come Chiesa cerchiamo di testimoniare solidarietà. Ma le parole da sole non bastano. Attiviamo le mense, diamo aiuti per quanto possibile. Non reggono anche gli istituti religiosi e le Caritas parrocchiali sono allo stremo.
Anche noi, come i primi Apostoli, siamo costretti a dire Signore, dove possiamo comprare il pane?. Risuona, oggi più che mai, questo angosciante interrogativo che lanciai, pubblicamente, a Pasqua del 2009 con una Lettera Pastorale, perché già allora si paventava la perdita di circa duecentomila posti di lavoro, per cui altrettante famiglie si sarebbero aggiunte a quante, già numerose, vivevano in situazioni di estrema povertà.
Sento il loro grido dicevo nella Lettera lo ascolto ogni giorno negli incontri nelle parrocchie o attraverso la corrispondenza e mi chiedo se si può rimanere insensibili a tanto dolore e sofferenza. Può un padre tapparsi le orecchie o rispondere di andare altrove a procurarsi da mangiare? Può un Vescovo o un sacerdote, testimone di Cristo, rimanere indifferente a quanti chiedono aiuto e compassione?.
Questo grido di dolore, questi interrogativi pesanti come un macigno io pongo ancora a me stesso, ma rivolgo anche e soprattutto a quanti, più di me, hanno responsabilità politiche e di governo. Non si possono girare gli occhi dallaltro lato di fronte alla sofferenza straziante di tanti o alle scelte mortali di alcuni che rinunciano alla vita.
Non si può restare sordi e indifferenti. Occorre dare uno scossone alla propria coscienza, occorre un forte risveglio morale, occorre una presa di coscienza delle proprie responsabilità.
Cè troppa gente che vive nella miseria. Cè gente che muore a causa di una povertà imposta. Al di là dei limiti e dei vincoli, che pure vanno rispettati, vi prego, trovate soluzioni rapide, fate presto!
Crescenzio Card. Sepe