Don Peppe, la beatitudine dell’irrequietezza
“Quando ero ragazzo una suora diceva di me che io ero molto irrequieto ma attento e diligente… Solo ora capisco cosa voleva dire irrequieto: ricerca del perché della mia fede…. L’ansia di Dio mi attanagliava”.
Sono le parole con le quali don Peppe Diana raccontava se stesso alla fine del suo percorso di formazione in Seminario, e che Mons. Spinillo, vescovo di Aversa, tre anni fa ha riportato nella sua Lettera pastorale in occasione del venticinquesimo anniversario dell’omicidio.
Certo, sarei troppo riduttivo se dicessi che don Peppe sta tutto in queste parole, nello stesso tempo però penso sia altrettanto riduttivo affermare che uno come lui stia solo nel suo martirio.
Io penso che queste due dimensioni – l’irrequietezza e il martirio – siano inesorabilmente intrecciate fra di loro, l’una non può stare senza l’altra, l’una trova compimento nell’altra. Penso che se non ci fosse stata quella irrequietezza non ci sarebbe stato il martirio, e che il martirio è solo la tappa finale e la logica conseguenza dell’irrequietezza di don Peppe.
Mi piace pensare, infatti, che “irrequietezza” se etimologicamente significa “non trovare quiete”, in fondo non può non significare anche “non accettare la quiete”: non accettarla quando vedi che sei circondato dalle ingiustizie, non accettarla quando quiete è sinonimo di uno status quo che sta bene a tutti ma danneggia solo e sempre i più deboli, non accettarla quando quiete significa fare finta di nulla, non ascoltare il grido degli oppressi, chiudere gli occhi sulle fatiche di chi vive ai margini, e girarsi dall’altra parte.
Ecco perché penso che per don Peppe essere irrequieto significava semplicemente vivere il Vangelo e dire con tutto se stesso che Vangelo e quieto vivere sono agli antipodi, soprattutto in terre di frontiera e laddove la dignità umana è calpestata tutti i giorni.
Ora, forse, capisco cosa voleva dire quando affermava: “a me non importa sapere chi è Dio, a me importa sapere da che parte sta”. E lui lo aveva capito.
E così ha fatto la sua scelta, che si coniugava poi con le sue attività di tutti i giorni: darsi da fare per accogliere gli extracomunitari, come questi fratelli e queste sorelle venivano chiamati a quei tempi, condividere le ansie e le fatiche di quel pianeta giovanile per il quale aveva un’ascendenza particolare e che andavano dai ragazzi delle scuole agli inseparabili scout ma anche a quelli più in difficoltà e ai margini, raccogliere le confidenze di chi era vessato dalla prepotenza criminale, indignarsi dinanzi ai morti ammazzati – e in quegli anni se ne contavano tutti i giorni –, non nascondere la propria impotenza dinanzi alle giovani vittime senza riuscire a trovare le parole giuste per consolare il dolore di chi restava, partecipare senza mai un attimo di respiro ai tanti dibattiti nelle scuole, alle marce, alle manifestazioni sulla legalità e contro la camorra.
Un impegno quotidiano e instancabile che affondava le proprie radici proprio in quella sete di giustizia, in quella fame di diritti, in quella inquietudine esistenziale che don Peppe aveva pensato bene di sintetizzare in tre semplici parole: “ansia di Dio”!
Come si può non dire, allora, che il suo omicidio, la spogliazione cioè della sua vita per opera di mani criminali, sia stata solo il porto di approdo di un’altra spogliazione, quella quotidiana, esuberante, certo, fatta di una molteplicità di attività, ma spesso e il più delle volte silenziosa, anonima e nascosta! E come si può non convincersi che mentre i più chiamano martirio solo la tappa finale, e cioè quel conto salato che una volontà assassina ti presenterà per il tuo esserti schierato e per le tue scelte coraggiose, proprio quelle stesse scelte e quegli stessi percorsi finché sono rimasti nell’ombra, per te che li vivi, e per te soltanto, significano invece spesso “bocconi amari”, “incomprensioni”, “solitudini”, “ingratitudine”!
È quel coacervo di sentimenti che quel grande uomo di Dio che fu padre David Turoldo esprimeva con queste parole: “se vuoi liberare i poveri, non avrai una notte sicura e il giorno sarà come notte. Se ti metti dalla parte dei poveri ogni pezzo di pane può essere veleno”.
Io non lo so se don Peppe leggeva Turoldo e se pregava con le sue poesie, mi piace però immaginarlo nei momenti più difficili, seduto in fondo alla sua chiesa di San Nicola, dinanzi al suo tabernacolo, e abbandonarsi al suo Signore proprio con queste parole. E mi piace pensare che sarà stato proprio in uno di quei momenti che avrà appuntato su un pezzo di carta quella frase che poi ritroveremo nel famoso Documento di Natale del 1991: “coscienti che il nostro aiuto è nel nome del Signore, come credenti in Gesù Cristo il quale al finir della notte si ritirava sul monte a pregare, riaffermiamo il valore anticipatorio della preghiera che è la fonte della nostra speranza”.
Don Peppe, dunque, sul Golgota non ci è arrivato all’improvviso e neanche sbagliando strada; era quella la strada, l’aveva scelta lui giorno dopo giorno, curva dopo curva, percorrendola e inerpicandosi lungo i ripidi tornanti di quell’altro martirio, di quell’altra spogliazione, quella della quotidianità, laddove spariscono le sicurezze, per dirla con Turoldo, dove tutto è spesso incomprensibile, dove il giorno diventa notte e non poche volte ti tocca sorseggiare veleno goccia dopo goccia.
Come si fa a non pensare alle chiacchiere, al malessere e alle incomprensioni che pure avranno caratterizzato la sua vita di tutti i giorni e che derivavano dal suo prodigarsi per i migranti, dalle sue battaglie per la legalità, dalla sua esuberanza di giovane prete appassionato ed entusiasta? E non si può certo dimenticare il veleno sparso addirittura proprio mentre il suo sangue era ancora caldo sul pavimento della sua chiesa, con l’obiettivo non solo di macchiarne la memoria ma anche perché un’intera comunità non facesse mai più memoria.
E allora, io ne sono convinto: è lì, è in quell’irrequietezza che non gli permetteva sonni tranquilli solo al pensiero di quanto gli accadeva intorno, e che non lo faceva sentire in pace “finché non sorge come aurora la giustizia”, come dice Isaia, è in quella sua permanente “ansia di Dio” che lo attanagliava fino a togliergli il respiro, è lì che affonda le proprie radici il martirio di don Peppe Diana.
Oscar Romero, vescovo “irrequieto” dinanzi alle ingiustizie che subiva il suo popolo, vescovo che di martirio se ne intende, ucciso anche lui in chiesa, e che come ricorderete il giorno stesso del 19 marzo 1994 fu paragonato a don Peppe in quel manifesto con cui la Parrocchia di San Nicola decise di ribellarsi immediatamente alla violenza della camorra, affermava: “noi siamo disponibili, quando giungerà la nostra ora, a dire al Signore: Signore, io ero disposto a dare la vita per te e l’ho data. Perché dare la vita non significa soltanto essere uccisi. Dare la vita, avere lo spirito del martirio, è dare nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; è dare la vita a poco a poco, nel silenzio della vita quotidiana, come la dà la madre che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio”.
Don Peppe ha fatto proprio questo: ha dato la sua vita “poco a poco”, nella quotidianità, “nel compimento onesto del proprio dovere”, ed è quindi caduto per sempre sotto i colpi del killer semplicemente perché ha vissuto una beatitudine che seppure non è scritta nei Vangeli, a pensarci bene attraversa tutte le altre beatitudini facendo da architrave a tutte: la beatitudine dell’irrequietezza, e cioè dell’opposizione al male, della non accettazione della quiete complice, del rifiuto delle ingiustizie.
Tutti i martiri hanno vissuto questa beatitudine, ecco perché sono martiri: perché non hanno accettato quella quiete che tutto copre, tutto asseconda, su tutto tace, nulla vede, che si gira dall’altra parte, mette la testa sotto la sabbia. Chi non accetta questa quiete è come Mosè che nella quiete del deserto si sente interpellato da un roveto che arde senza mai consumarsi, e non importa se il roveto è fuori o è dentro di lui, ma non ce la fa proprio a far finta di niente, deve avvicinarsi, una risposta la deve pure dare. Chi non accetta questa quiete si sente inviato come Mosè a liberare il proprio popolo, ad affrontare i faraoni di turno, ieri come oggi, e dinanzi ad essi non riesce a stare in silenzio, chiama i problemi per nome, la camorra la chiama camorra e non esita a definirla “dittatura” e “terrorismo”. Come fece don Peppe.
Non nasce proprio da questa beatitudine, condivisa e vissuta insieme con gli altri parroci della Forania di Casale di Principe, quella lettera profetica di trent’anni fa: “Per amore del mio popolo non tacerò”? Non è il non accettare ogni forma di violenza che spoglia le persone di ogni dignità e ruba il futuro di tanti, questo amore che ti obbliga a non tacere? E quel sentirsi senza fiato dinanzi alla violenza che deturpa il volto di un’intera comunità non è forse quell’“ansia di Dio che ti attanaglia”, a cui faceva riferimento proprio don Peppe?
Ricordare oggi don Peppe Diana e ricordare quel grido profetico del Natale del 1991 penso significhi prima di tutto ereditare quell’ansia e farsi attanagliare da quella stessa preoccupazione che portò lui e gli altri preti a scrivere quel memorabile Documento.
“Siamo preoccupati”, iniziava così, in questo modo scarno e franco. Preoccupazione è segno di attenzione e di condivisione, è l’opposto di indifferenza e di superficialità, ma soprattutto è segno di non accettazione delle cose che non vanno e quindi di partecipazione alle fatiche e alle sofferenze di chi ti sta intorno, che dunque metti in cima ai tuoi pensieri. Appunto, etimologicamente, li metti “prima di ogni altra occupazione”. Un percorso di liberazione inizia sempre da qui, dalla capacità di dare priorità alle situazioni alle quali nessuno da retta, dalla capacità di guardare la realtà in profondità, di avere occhi per tutti e per ciascuno, e soprattutto per i più oppressi e i più deboli, e di farsi interpellare dalle domande scomode e spesso senza risposte.
Se non ti preoccupi non potrai mai renderti conto del dolore che ti cammina affianco, semplicemente perché non lo vedi, e così non potrai mai sperimentare la tua impotenza dinanzi a quelle lacrime, a quel sangue, a quella violenza.
Ed invece mai come oggi noi abbiamo bisogno di una Chiesa che si “preoccupi” perché questa è l’unica condizione che ci permette di scorgere il dolore e di guardarlo in faccia, e non importa se dinanzi ad esso sperimentiamo la nostra impotenza, come scrivevano quei preti in quel Documento, ma è proprio l’impotenza che ci rende davvero e fino in fondo compagni di strada di tanta umanità dolente e sofferente.
“Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra”.
Non è così anche oggi? Le nostre meravigliose comunità non sono attraversate anche oggi spesso da una violenza senza spiegazioni e senza senso? E non assistiamo anche noi purtroppo impotenti alle manifestazioni cruenti di una camorra sempre più negazione di ogni dignità umana?
Io quella dichiarazione di impotenza di quel Documento non la leggo come una forma di resa dinanzi agli artigli del mostro, ma piuttosto come l’ennesima denuncia di un non senso al quale mai nessuno potrà restituire una risposta. Perché risposta non c’è e perché la violenza, e la violenza camorrista non ha e non ha mai avuto un senso!
Però ci vedo una chiamata alla responsabilità.
“Come battezzati in Cristo, – scrivevano i parroci – come Pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere segno di contraddizione”. È questa la sfida, e da questa sfida in modo particolare come Chiesa, “come battezzati in Cristo”, non possiamo tirarci indietro.
In questo tragico teatro del non senso che è la violenza e la cultura camorrista siamo chiamati a porci come “segno di contraddizione”, “irrequieti” direbbe don Peppe.
E lasciatemi aggiungere: “fuori luogo” quando nel luogo in cui viviamo tendono a prevalere “corruzione, lungaggini e favoritismi”, “fuori luogo” quando nel luogo in cui ci muoviamo assistiamo continuamente a “schiere di giovani emarginati” e “laboratori di violenza” a cielo aperto; insomma, perennemente in contraddizione rispetto alla quiete a cui tende la camorra cercando di diventare – come si denunciava nel Documento – “componente endemica nella società campana”.
Parole profetiche, che già trent’anni fa ci dicevano che è proprio questo il pericolo da cui guardarsi, soprattutto oggi: una camorra che da pandemia si trasforma in endemia finendo col farsi accettare come componente normale della nostra società!
Una chiamata alla responsabilità oggi per tutta la Chiesa, dunque.
Ma se responsabilità significa sentirsi “attanagliati dall’ansia di Dio” come diceva don Peppe – e non può che significare questo – allora vale anche per noi Chiesa campana oggi, quello che quei nostri confratelli coraggiosamente scrivevano nel 1991, e cioè sentirci chiamati a “un’azione più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una ministerialità di liberazione, di promozione umana e di servizio”.
Insomma, una Chiesa “ospedale di campo”, direbbe Papa Francesco.
Don Peppe non ha avuto la fortuna di conoscerlo ma sono certo che nel marzo del 2013 all’indomani della Messa Crismale celebrata dal neo eletto Papa a San Giovanni in Laterano avrebbe tappezzato la sua chiesa e l’intero suo quartiere di migliaia e migliaia di manifestini per far arrivare a tutti le parole di Bergoglio durante quell’omelia: “bisogna uscire a sperimentare la nostra azione, il suo potere e la sua efficacia redentrice: nelle periferie dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni”.
Io non so cosa si dissero in quei giorni quei preti coraggiosi quando si convocarono per scrivere quel Documento, ma sono convinto che oggi in queste parole di Papa Francesco avrebbero trovato la consacrazione definitiva al manifesto che stavano per scrivere.
E nello stesso tempo sono convinto che se quel documento fosse stato redatto oggi, quando quei preti scrivevano che “Dio ci chiama ad essere profeti”, e poi rivolgendosi ai propri confratelli li invitavano a “parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa”, non avrebbero esitato neanche un attimo ad aggiungere le parole ancora di Papa Francesco pronunciate alla solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo del 2020: “oggi abbiamo bisogno di profezia, ma di profezia vera: non di parolai che promettono l’impossibile, ma di testimonianze che il Vangelo è possibile. Servono vite che manifestano il miracolo dell’amore di Dio. Non potenza, ma coerenza. Non parole, ma preghiera. Non proclami, ma servizio. Tu vuoi una Chiesa profetica? Incomincia a servire e stai zitto. Non teoria, ma testimonianza”.
Oggi, come Chiesa della Campania non possiamo non sentire rivolte a noi queste forti parole così come non possiamo non sentire rivolto a noi l’Appello con il quale si chiudeva il Documento del 1991: “alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili”.
Non è consistito forse in questa incessante opera di coscientizzazione il lavoro quotidiano di don Peppe Diana?
Io penso che per noi – e non solo come Chiesa ma come comunità civile nella sua interezza – ricordare e fare memoria di questo prete martire deve significare sentirci sempre inadeguati dinanzi a qualunque contesto ci privi di speranza e ruba il sorriso ai nostri figli; deve significare non accettare mai quel quieto vivere che spesso è frutto di omertà, superficialità, semplificazioni, indifferenza; deve significare continuare a scrivere la storia sullo spartito delle Beatitudini ma deve soprattutto significare sentire rivolte a noi quelle stesse parole che di certo don Peppe nel suo dialogo intimo con il Padreterno sentiva ogni giorno risuonare nel profondo del proprio animo: “beato te irrequieto, perché Dio è dalla tua parte”.
† don Mimmo Battaglia