I poveri sono i più presenti, in prima fila, nel cuore e nella parola di don Tonino, perché degli ultimi, dalla Parola evangelica, è detto che saranno i primi. È la povera gente, persone comunissime, cariche dei problemi della vita, anche di errori e di colpe, gente sporca della polvere dei cammini più duri, senza potere né giustizia, senza onore, senza affetti, senza questo e senza quello. Sono i più
“non” di tutti, i più laici di tutti. Gli ultimi degli ultimi. Tutti gli otto Scritti quaresimali del 19881 sono dedicati
ai piedi:
di Pietro, di Giuda, di Giovanni, di Bartolomeo, degli altri, del Risorto.
Nulla di più basso e di più fondamentale dei piedi. Riguardo a Pietro, don Tonino scrive: «A furia di difendere la tesi del “primato” di Pietro, abbiamo perso di vista che egli è il capostipite di quell’ultimato” di poveri verso cui Gesù ha sempre espresso un amore preferenziale. I piedi dei poveri sono il traguardo di ogni serio cammino spirituale». Gesù, e don Tonino, onorano i piedi. I piedi degli ultimi, che Gesù ci ha chiesto di lavare, con gesto sacramentale, sono la mèta dell’elevazione spirituale. L’immagine alto-basso, il basso che è il vero alto, è stata usata tante volte come metafora del raddrizzamento di qualcosa che si trova capovolto.
Gli ultimi sono i primi, davvero, non a parole, nell’attenzione e nel cuore di don Tonino. Al punto che abbozza e ripete molte volte quella sua famosa, curiosa, divertente, e un po’ provocatoria, ma tanto vera, ecclesiologia del grembiule,
“l’unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo”, l’abito sacro comune a Gesù, ai preti, ai laici.
Le sue liturgie annunciano davvero il largo banchetto del Regno esemplificato nelle parabole di Gesù: invita poveri, storpi, zoppi e ciechi, nel corpo o nell’animo, insomma quelli che non possono ricambiare e ti rendono beato, perché dai senza riavere. A questo scopo, ha delle invenzioni liturgiche, che oggi forse sarebbero rimproverate. Una, l’eucarestia della rosa e della strada, riferita direttamente da una ragazza, “poco pratica di messe”, che don Tonino aveva invitato a tradurre la messa in altre lingue, in un convegno internazionale, e coinvolta profondamente in questa liturgia: ad un certo punto della messa, egli tirò fuori da sotto l’altare un secchio di rose, ne diede una a ciascuno dei presenti perché andassero in strada a regalarla al primo passante e rimase ad aspettare tutto contento e sorridente. La ragazza esce, ma torna con la rosa: «Il primo passante che ho incontrato, che ha bisogno della rosa, sono io».Don Tonino l’abbraccia e le dice: «La prossima volta la invito a ballare, ma non a Molfetta, se no la gente chissà cosa dice». La larghezza del banchetto del Regno di Dio, ma anche l’esigenza, che stabilisce la precedenza della pace sul culto, secondo quella parola:
«Se stai per deporre sull’altare la tua offerta e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare e vai prima a riconciliarti con tuo fratello, dopo verrai ad offrire il tuo dono».
Don Tonino, non per la necessità di riconciliarsi, ma per rispondere alla chiamata improvvisa del vescovo Paolino, di Città di Castello, di andare in un liceo a parlare della pace, cioè della riconciliazione, depone i paramenti già indossati, lascia gli altri vescovi a concelebrare e va in quel liceo a fare uno dei suoi discorsi più organici sulla pace. In qualche altra occasione ravviva e infiora la liturgia di gesti parlanti improvvisati, che propone alla vivace partecipazione dei laici. Il vescovo Tonino Bello ha grande stima di una seria etica laica. Qui laica significa un’etica di non credenti, un’etica non accompagnata dalla fede nella presenza dello Spirito di Dio ad ispirare e sostenere la nostra vita morale, ma, al massimo, ammiratrice della sapienza morale del Vangelo.
Gaetano Salvemini (1873-1957) era nativo di Molfetta. Nel 1988, anche il vescovo interviene nelle Giornate Salveminiane, che si tengono in città, senza nessuna voglia di annessione culturale, perché – lo ricorda lui stesso – «il grande storico molfettese» aveva scritto nel testamento: «Intendo morire fuori della Chiesa cattolica, senza equivoci di sorta». Poi dice: «Salvemini è stato e rimane un anticlericale tutto d’un pezzo e senza cedimenti. Mai, però, volgare o sguaiato. Anzi, così fine e, soprattutto, così nutrito di sofferte ragioni etiche, che oggi perfino il vescovo della città che gli ha dato i natali, un paio di anticlericali del genere, se li vorrebbe sempre a ridosso. Se non altro, perché lo aiuterebbero a preservare il messaggio di Cristo da contaminazioni mondane e da inquinamenti di potere».
Cita poi, tra altre, queste parole di Salvemini: «La vecchierella che, pregando innanzi all’immagine della Madonna, trova conforto al suo dolore e un raggio di speranza, è altrettanto rispettabile quanto il filosofo che pesta l’acqua nel mortaio delle sue astrazioni». Salvemini, dice il vescovo, «ha lasciato trasparire unicamente una indomita passione per la libertà e il rifiuto viscerale per le posizioni discriminanti di privilegio accordate a chiese o gruppi o persone». E cita ancora dal testamento di Salvemini: «Se ammirare e cercare di seguire gli insegnamenti morali di Gesù Cristo, senza curarsi se Gesù sia stato figlio di Dio o no, è essere cristiano, allora intendo morire da cristiano, come cercai di vivere, senza purtroppo esserci riuscito».
Termina don Tonino queste pagine luminose per larghezza di cuore e di mente, dicendo:«C’è da esser certi che il Signore, sensibile ai galantuomini increduli non meno di quanto sia indulgente con le canaglie credenti, abbia accolto ugualmente nella sua pace questo profeta laico del suo Regno».
Don Tonino, in una lettera del 1985 a chi opera nel volontariato, ringrazia varie categorie di volontari, e alla fine dice: «Grazie, infine, a voi volontari non credenti, che, pur non essendo sostenuti da speranze ultramondane, vi prodigate per alleggerire la croce degli uomini. Voi non lo sapete, ma quella è la croce di Dio».
* Direttore Caritas Diocesana