“Fra di voi non sia così”
Plenum, 20 febbraio 2023
Chissà cosa pensò Gesù quando quella sera restò solo e si appartò dal resto del gruppo – come spesso gli capitava – per cercare un po’ di intimità con il Padre.
I vangeli ci dicono che a quella richiesta così spiazzante e sconcertante rispose come suo solito con prontezza.
Le parole di Giacomo e Giovanni gli risuonavano ancora nelle orecchie: “Maestro noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo… Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,35-45).
Lo aveva certamente colpito, e forse anche un po’ amareggiato, il tono perentorio di quella richiesta – “noi vogliamo” -, una pretesa che sapeva tanto di rivendicazione, con l’arroganza tipica di chi, a motivo della scelta fatta, pensava che da quel momento in poi tutto gli spettasse di diritto.
Eppure, un attimo prima Gesù era stato ancora una volta chiaro con loro.
Stavano salendo a Gerusalemme, il clima nel gruppo era teso, triste, poca voglia di scherzare.
Il Maestro gli camminava davanti (Mc 10,32-34) a dimostrazione della sua determinazione, della convinzione delle sue scelte, i suoi discepoli lo seguivano “stupiti e pieni di timore”, e poi all’improvviso quelle sue parole così fragili e tremanti, l’ennesima confidenza che a dire il vero somigliava tanto alla richiesta di aiuto di chi iniziava ad avere paura di quello che da un momento all’altro gli sarebbe successo: “noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’Uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno”.
E invece cosa vanno a pensare quei due fratelli?
Alle loro ambizioni, alla loro gloria, alla loro carriera.
Certo, Gesù rispose da par suo, con la solita franchezza e con il solito invito a riflettere, a scendere nelle profondità delle questioni, ad approfondire meglio il senso di quel cammino che stavano facendo insieme, a non fermarsi all’entusiasmo del momento.
Ma non è questo il punto.
Il problema è un altro: come si può essere così sordi e ciechi?
Il Maestro, l’amico, colui che li sta accompagnando nel percorso più esaltante che forse gli è mai capitato di fare nella vita, quello che gli sta facendo toccare il Cielo con un dito portandoli così vicini a Dio come mai prima gli era successo, ora sta lì a consegnargli i risvolti del suo animo nel momento più delicato della sua esistenza, gli sta mettendo fra le mani l’ansia e la paura di un crocevia così importante della sua vicenda personale, e loro cosa fanno? Pensano alle rivendicazioni! Pensano a quali posti occupare!
Chissà quale turbinio di sentimenti accompagnò Gesù quando quella sera restò solo con sé stesso e chissà quanti interrogativi gli agitavano il cuore. E con essi forse, inevitabilmente, un senso di smarrimento, quasi di sconforto, sicuramente di amarezza.
Il Vangelo non ce lo dice, non ci fa scendere così in profondità nell’animo del Maestro – e forse anche per un senso di pudore dello stesso evangelista nel narrare un episodio che avrebbe fatto volentieri a meno di ricordare – ma non penso di esagerare troppo se quegli accadimenti me li immagino in questo modo.
Chissà quante volte ci è capitato.
Anche noi quando ci veniamo a trovare in situazioni simili, abbiamo poi voglia di restare soli, di gettarci nel cuore del Padre. E restiamo in silenzio, fissiamo il vuoto, ripensiamo a quegli istanti, a quelle parole, finché pian piano sentiamo montarci dentro un’altra infinità di domande, ancora più scomode, ancora più lancinanti: dove sto sbagliando? Perché non mi faccio capire? Cos’è che non riesco a trasmettergli? Che cosa cercano davvero?
Mi viene da pensare che quella sera anche Gesù nella sua solitudine si sia fatto travolgere da questo vortice di sensazioni. E chissà, forse ad un certo punto quel turbinio si sarà trasformato in un vero e proprio tsunami solo al pensiero delle parole che subito dopo pronunciarono gli altri dieci.
Perché sicuramente fuori luogo era stata la richiesta di Giacomo e Giovanni ma decisamente ancora più sconcertante fu l’indignazione degli altri discepoli.
“All’udire questo – scrive sempre Marco – gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni”.
Gesù era rimasto lì, come fra due fuochi, non gli era passata inosservata la loro reazione, e non riuscì proprio a non pensare che quello sdegno in realtà sapeva tanto di invidia, che quello era il tipico moto di rabbia di chi avvertiva di essere stato semplicemente anticipato sul tempo. In realtà quella richiesta l’avrebbero voluta fare anche loro, e quante volte magari avrebbero voluto chiedergli anche loro di “sedersi uno alla destra e uno alla sinistra”, ma non ne avevano mai avuto il coraggio o forse non avevano trovato il momento giusto.
Giacomo e Giovanni invece c’erano riusciti. Tutto qui.
Ma non solo. Io penso che questo brano evangelico non ci racconti solo questo, ma ancor di più, ho l’impressione che ci restituisca, come fanno anche gli altri vangeli, l’istantanea di un gruppo che a pensarci bene era in fondo un manipolo di persone estranee fra di loro.
Fino a qualche anno prima nessuno dei dodici sapeva dell’esistenza degli altri, ognuno aveva la propria vita, il proprio percorso, i propri progetti, le proprie famiglie, le proprie amicizie. Venivano da situazioni e dai contesti più disparati. E ognuno con le proprie ferite.
C’era chi aveva vissuto solo di pesca e il suo mondo era circoscritto al solo perimetro di un lago, c’era chi aveva avuto a che fare con gabelle e imposte e non disdegnava di frequentare anche gli sconci ritrovi della gente più varia. C’era chi veniva da esperienze più spirituali ma anche chi aveva frequentato circuiti politici. Chi aveva sempre vissuto in città, e chi invece non era mai uscito dal proprio villaggio di quattro case.
Poi per tutti era arrivato quell’incontro. Quel Rabbi aveva spaccato in due la vita di ciascuno, e ognuno di loro si immerse in un’avventura della quale sapevano da dove partivano e cosa lasciavano, ma non potevano minimamente immaginare dove quel Maestro lì avrebbe portati e con chi altri avrebbero condiviso quella strada. Ma è a Gesù che si erano affidati, è di lui che si fidavano, è sul suo sogno che scommettevano. Nient’altro. Il resto sarebbe venuto dopo.
E il resto, che ovviamente nessuno di loro aveva messo in conto, sarebbe stato il ritrovarsi accanto a dei perfetti sconosciuti dei quali impararono i nomi solo quando se li ritrovarono lì, anch’essi intorno al Maestro, anch’essi a scommettere su quel profeta, esattamente come era capitato a loro.
La verità era che quei dodici non si erano scelti fra di loro, erano stati scelti.
E questo non era secondario rispetto alla vita che avrebbero condiviso, perché significava che non erano chiamati solo a fidarsi di Gesù ma anche di quegli improvvisati compagni di strada, e che dunque avrebbero dovuto sforzarsi per conoscersi reciprocamente, accogliersi, sopportarsi e anche per guardarsi senza pregiudizi sulle diverse provenienze, sulle storie di ciascuno, sulla varietà dei dialetti, e anche sull’idea di Dio che ognuno si portava dentro.
Non fu per nulla facile e i vangeli ce lo raccontano.
C’era chi correva più di altri e chi invece faceva fatica a tenere il passo (Mt 16,22); chi con entusiasmo accolse da subito la novità di quel messaggio (cfr. Mc 7,2; Lc 5,33; Mt 12,1-2; 15,1-2) e chi invece stentava a comprenderlo in tutta la sua portata (cfr. Mt 16,5-12). C’era chi pensava di aver già capito tutto e chi aveva paura di non farcela (cfr. Mt 19,25; Lc 8,24; Gv 6,60), chi concepiva quel cammino come una fuga dalla realtà (cfr. Lc 9, 28-36; Mt 17,1-8) e chi lo immaginava invece come un privilegio riservato solo a loro (cfr. Lc 9,49).
C’era di tutto, insomma in quel gruppo. Un’umanità talmente varia che solo poco tempo prima nessuno avrebbe mai immaginato che un giorno persone così diverse fra di loro si sarebbero ritrovati a camminare insieme.
Gesù, invece, lo sapeva con chi aveva a che fare, non li aveva scelti per i loro meriti ma per la loro capacità di condividere il suo sogno. E forse anche per i loro vissuti, per le storie di fragilità che si portavano dentro e che si lasciavano alle spalle o anche, molto più semplicemente, per la prontezza e l’entusiasmo che ciascuno di loro dimostrò nel momento in cui furono chiamati. E li prese così com’erano, senza chiedergli la carta d’identità, senza alcuna prova d’ingresso e senza pretendere alcuna perfezione ma offrendogli come unica condizione il fidarsi di lui.
E lui avrebbe fatto il resto. E il resto sarebbe consistito non solo nel portarli con lui in quel grande e improbabile progetto che si chiamava Regno di Dio, ma anche nel trasformarli da un semplice gruppo di sconosciuti in una comunità di fratelli.
Ma anche per Gesù non fu facile; la sfida in fondo riguardava anche lui.
Toccò anche a lui mettersi in gioco, imparare a conoscerli, entrare passo dopo passo nelle loro storie, accompagnare i loro tempi, sopportare le loro fragilità, e soprattutto imparare a volergli bene così com’erano, per quello che la loro umanità offriva.
Ma d’altronde non era stato lui a decidere di iniziare proprio da loro la sua missione? Non si riferiva forse a questo improbabile gruppo di scanzonati quando parlava del “granello di senape”, quel minuscolo e insignificante seme da cui sarebbe scaturito quel mondo nuovo sotto i cui rami tutti avrebbero trovato ombra (Mc 4,31-32)?
Non aveva forse deciso lui di affidare questi improvvisati compagni di viaggio all’occhio vigile e saggio ma anche incerto e così passionale di Pietro che in quanto a dubbi, incertezze e paure non era sicuramente secondo agli altri della compagnia?
Ecco perché – ritornando all’episodio iniziale del vangelo di Marco – penso che Gesù quel giorno restò certamente amareggiato per quello che era successo e per le parole che aveva ascoltato, ma poi forse non si meravigliò più di tanto.
Quella non fu la prima volta e neanche l’ultima.
Come quando per esempio li sorprese a discutere fra di loro su “chi fosse il più grande” (Mc 4,33-34) o come quando sempre dinanzi al solito quesito su chi dovesse essere “il più grande nel Regno dei cieli” (Mc 4,22-24) li invitò piuttosto alla chiarezza nei rapporti e ad andare oltre le debolezze (“se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo”, Mt 18,15).
Cari amici e fratelli, noi siamo loro.
Un tempo anche noi non ci conoscevamo, eravamo estranei gli uni agli altri. E io ancor di più che sono l’ultimo arrivato.
In storie e tempi diversi il suo progetto ha incrociato le nostre strade, abbiamo risposto alla sua chiamata, fino a quando ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a camminare insieme. Anche noi abbiamo dovuto imparare a chiamarci per nome, a procedere l’uno accanto all’altro, a conoscerci più in profondità, e poi inevitabilmente non solo a scoprire poco alla volta le fragilità degli altri, ma anche a svelare i nostri limiti, le nostre debolezze e le nostre ferite. A quel punto abbiamo iniziato probabilmente a guardarci con occhi diversi e a rapportarci in modo diverso, fino a che, pian piano, e magari anche senza accorgercene, le nostre povertà hanno iniziato a prendere il sopravvento sulla bellezza del Sogno divino che ci ha fatto incontrare e della scommessa del Regno che ci ha accomunati.
Il rischio, da cui nessuno di noi è esente, è che le incomprensioni ci tengano distanti e ci facciano trattare con sospetto, che le diversità di vedute e di pensiero ci spingano ad allontanarci, che le ferite degli altri siano il pretesto per alimentare pregiudizi piuttosto che il terreno per accoglierci nella nostra umanità, che la presunzione di una superiorità spirituale e culturale trasformi lo sforzo della comunione in una latente competizione, e che la lecita affermazione dei nostri carismi e delle nostre capacità diventi arrivismo anche a scapito del confratello, anzi spesso proprio ai danni del confratello.
Non vi nascondo insomma la mia paura che alla fine si cammini insieme ma si resti estranei l’uno all’altro.
Certo, se pensiamo all’annuncio di cui siamo strumenti e alla gente che ogni giorno abbiamo la fortuna di guardare sui volti, il nostro è un cammino appassionante, ma quanta tristezza se ci lasciamo zavorrare da queste dinamiche che invece rischiano di appannare il senso della nostra missione, di rilegarlo ad un secondo piano e alla fine di mettere al centro il nostro ego piuttosto che il vangelo.
Io lo so che non ci sono bacchette magiche. Non sono così ingenuo – e nessuno di noi lo è – da pensare che tutto questo si superi con una preghiera o con un generico e spiritualista invito a volersi bene. Non mi sfugge e non deve sfuggire a nessuno di noi il fatto che prima che preti, ognuno di noi è innanzitutto portatore di una umanità con una sua impronta, una sua unicità, e con tanto di resistenze, di spigoli più o meno fastidiosi e più o meno malleabili, e con un proprio desiderio di affermazione: ma è su questa umanità che si è innestata la chiamata del Signore per ciascuno di noi, è a questa sua unicità che lui ha affidato l’annuncio del vangelo. Non ad una umanità ideale.
Ora capisco perché san Paolo dirà che “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,27-28): per dire non solo l’inevitabilità di quello che ciascuno di noi è, in modo che nessuno lo viva come un alibi, ma anche per dire che paradossalmente sta proprio in questo lo scandalo del vangelo.
Deboli, ignobili, disprezzati, non super uomini, non santi prima di nascere. E se questo vale per me, vale anche per gli altri.
Così erano i dodici, è su questa umanità che ha lavorato Gesù, è su questa roccia che ha poggiato le fondamenta del suo sogno e senza mai illudersi che quei dodici potessero diventare perfetti.
E così, da un lato lui che è andato coltivandoli come seme di un’umanità nuova senza mai chiedergli di abdicare alle loro fragilità, convinto invece, come direbbe il poeta Antonio Machado, che “camminando si apre il cammino”, dall’altro lato loro che cammin facendo andavano scoprendo che solo fidandosi maggiormente del Maestro si sarebbero avvicinati di più fra di loro. E che in fondo – come dirà don Tonino Bello duemila anni dopo – “gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati”.
Ma d’altronde cosa significherà quel “è da come vi amerete che vi riconosceranno che siete miei discepoli” (Gv 13,35), il testamento che Gesù metterà nelle mani di tutti a partire proprio dai suoi amici più stretti? E cosa significa per noi oggi, preti di questa chiesa particolare?
Io lo leggo in questo modo: è da come vi accoglierete, da come vi accetterete per quello che siete, dalla capacità che avrete di avere occhi l’uno per altro, di aspettarvi nei momenti di incertezza, di rispettarvi nei tempi, dal coraggio di vincere gli steccati dei reciproci pregiudizi, di sentirci tutti responsabili nello stesso modo dell’unico percorso: è da tutto questo che capiranno che siete miei discepoli, perché vedranno riproporsi fra di voi esattamente quello che io ho fatto con voi.
E cosa significherà quel gesto così imbarazzante che il Maestro farà alla fine di quell’ultima cena quando lavando i piedi dei suoi amici dirà: “se dunque io il Signore e il Maestro ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14)? Anche qui mi sembra che dica: come io mi sono preso cura di voi, come io mi sono piegato sulle vostre fragilità, come ho rispettato le vostre ferite senza mai giudicarle, nello stesso modo anche voi prendetevi cura l’uno dell’altro perché il futuro del mondo sta proprio nella capacità di passare dalla logica perversa del “non mi interessa” alla bellezza del dire “tu mi stai a cuore”.
Forse è per questo che Pietro fece un balzo indietro e si ribellò dinanzi a quel gesto. “Non mi laverai mai i piedi”, disse a Gesù, perché in fondo aveva capito che quel mondo capovolto che sarebbe andato ad annunciare è proprio da lì che doveva iniziare, dai suoi compagni di strada, da quel gruppo di amici, da quelli che nel tempo aveva conosciuto anche nei limiti e nei peggiori difetti. E come si fa? Non c’è cosa più difficile!
Questo gesto noi lo abbiamo ridotto ad un semplice segno liturgico da Settimana Santa ed invece il Signore ce lo consegna come il gesto umano più sacro e più rivoluzionario che ci possa essere, perché ci ricorda che gli altri ci appartengono così come sono, e che se vogliamo “volare” siamo “condannati” ad “abbracciarli” e a prenderci cura di loro, così come sono.
E allora ritorno a quel giorno, alle parole dei figli di Zebedeo, e alla risposta di Gesù: “voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così, ma chi vuole essere grande tra di voi si farà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”.
“Fra di voi non sia così”, dunque.
Qui non c’è nessun dominio da affermare, nessun potere da esercitare, nessuna grandezza da rivendicare, nessuna superiorità da dimostrare, nessun posto da occupare. Io vi propongo un mondo capovolto, e un modo diverso di stare insieme, a partire da voi, da questo piccolo gruppo: se volete essere i primi date visibilità a chi vi sta dietro, se volete essere forti sollevatevi nelle fragilità, se volete essere grandi rendete grandi i più semplici fra di voi, se volete esprimere le vostre capacità mettetele a disposizione di chi ritenete meno capace di voi, e se pensate di essere insostituibili fate sentire unici chi vi cammina accanto.
Questi discepoli hanno ancora bisogno di convertirsi a Gesù, hanno ancora bisogno di conoscere il suo amore gratuito, hanno ancora bisogno di riconoscerlo come reale principio e fondamento della comunione tra loro e con il Padre.
La responsabilità della comunione è il dono più grande, è la roccia su cui costruire la casa, è il vento leggero in cui ritrovare la voce di Dio, è il luogo in cui riconoscere la prossimità. È il luogo del limite ma anche della possibilità. Coraggio! Io ho scelto voi!
E scoprirete, e scopriremo amici cari, di essere già noi, a partire da qui, un minuscolo seme del Regno.
E quando la fatica prende il sopravvento, e la debolezza della nostra umanità non ci aiuta a guardare con speranza l’oltre, e ritorniamo ad appiattirci tra pregiudizi e rivalità, abbandoniamoci ancora una volta fiduciosi a quel Maestro che un giorno ci ha fatto incontrare e ci ha messi insieme e umilmente chiediamogli con don Tonino Bello: “Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli nel cenacolo, gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra e capaci di misericordia per tutte le loro debolezze”.
† don Mimmo