Siamo giunti al termine del ciclo della lectio divina quaresimale di quest’anno, nel quale abbiamo avuto come compagno di viaggio il piccolo libro di Rut. Prestando attenzione alla vicenda di questa donna e degli altri personaggi, la nostra riflessione si è soffermata su non pochi temi utili per “riformare” la vita e indirizzarci verso la conversione. Come Rut ha avuto la forza di abbandonare gli dèi del suo popolo, così noi dobbiamo impegnarci a voltare le spalle agli dèi che ci dominano e che possiamo chiamare con il loro proprio nome: denaro, successo, passioni smodate. Tutto questo – lo sappiamo bene – genera conflitti tra di noi e ci rende egoisti e infelici.
Ci aiuti, stasera, l’intercessione del patrono della comunità parrocchiale di Scampia, san Giuseppe Moscati, il medico che seppe unire la competenza scientifica alla carità eroica a vantaggio dei poveri. Egli, sorretto da una fede incrollabile e dalla preghiera, guardò in ogni uomo che si rivolgeva a lui il volto di Cristo sofferente.
Momento della lectio
Il Libro di Rut inizia con un tono triste, presentandoci in sintesi le peripezie di una povera famiglia di Betlemme di Giuda, costretta non solo a emigrare a causa del lavoro e della carestia, ma anche a vivere l’esperienza dolorosa della morte del capofamiglia e dei suoi due figli sposati. Restano le donne, ormai vedove.
Un primo segno di speranza si vede nella notizia che a Betlemme la situazione è migliorata.
Da qui nasce la decisione dell’anziana Noemi di tornare nella sua patria, confidando nella compassione di qualche parente. Ella, però, non torna da sola, ma con la nuora Rut, che non l’ha voluta abbandonare. È proprio questa straniera a essere lo “strumento” di cui il Signore si serve per portare a compimento il suo progetto, che ha due finalità: “salvare” Noemi e la sua famiglia; far procedere il cammino della storia della salvezza.
Il libro, quindi, non ha il semplice finale del “vissero tutti felici e contenti”, ma è aperto al futuro, va oltre se stesso e ci proietta in una linea di continuità. Rut e Booz sono un anello di una lunga catena che inizia da Abramo, passa per i patriarchi e l’esodo per giungere al grande personaggio che caratterizza la storia del popolo dell’alleanza, la vera sorpresa che ho annunciato nella prima lectio: Davide.
Così Booz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio [v. 13]. Un unico versetto riassume un periodo lungo almeno nove mesi: dal matrimonio di Booz con Rut, a tempo opportuno c’è la nascita del bambino, il figlio tanto desiderato.
Il confronto va fatto con il capitolo primo. Lì si dice che Rut era sposata a Maclon, ma dall’unione non erano nati figli, mentre ora il figlio nasce subito. Alla sterilità del tempo di Moab si contrappone la fertilità del tempo di Giuda. La provvidenza e il progetto di Dio sono sperimentati in maniera concreta dai vari protagonisti, i quali sono ormai gioiosi perché sono stati superati tutti gli ostacoli.
E le donne dicevano a Noemi: “Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto” [v. 14].
Noemi, infatti, è felice perché la sua vita non si risolve in un disastro, avendo trovato il parente che in qualche modo riscatta la sua famiglia.
Rut vede ricompensata la sua fedeltà alla suocera e il suo desiderio di “cambiare popolo e divinità”.
Booz è soddisfatto perché innamorato di Rut, una donna secondo i suoi ideali di onestà e rettitudine. Il riconoscimento di questi risultati avviene attraverso la vox populi, il coro degli abitanti di Betlemme, soprattutto le donne, le quali “certificano” e attestano che gli eventi sono stati guidati dal Signore. Non a caso, in questo versetto il Signore viene benedetto, e quindi ringraziato, per quanto ha compiuto liberando i protagonisti dalle loro angosce e aprendo loro un futuro, una vita serena e felice, colma di soddisfazioni, ossia una vita benedetta da Dio.
“Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli” [v.15]. Il figlio che Rut ha partorito a Booz è connesso anche con la persona e la vita di Noemi.
Le donne hanno già detto che il Signore le ha fatto trovare un goel, un riscattatore, l’uomo che ha sposato sua nuora. Ora che è giunto un figlio lei può essere ancora più felice, poiché il nipote sarà il vero sostegno della sua vecchiaia, la dimostrazione che la sua vita ha un senso.
Noemi può dirsi, allora, consolata: le sue lacrime sono state asciugate e la sua esistenza non è più contrassegnata dall’amarezza, come diceva alle betlemite al suo ritorno da Moab. E se la nuora l’ha amata e assistita, tanto più farà il figlio nato da lei. Verso la nonna costui nutrirà certamente quella devozione e quell’affetto che hanno reso speciale Rut agli occhi dell’intera popolazione della piccola città di Giuda. Sono davvero molto belle queste parole di augurio rivolte a Noemi, che vede rifiorire la sua vita in maniera perfino superiore alle sue aspettative.
Tutto questo è opera della misericordia del Signore.
Le vicine gli cercavano un nome e dicevano:
“È nato un figlio a Noemi!”. E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide [v.17]. C’è una partecipazione gioiosa e corale a quest’avvenimento. Dicendo “È nato un figlio a Noemi!” le vicine non vogliono sminuire il ruolo della madre, ma sottolineare che il nipote svolgerà la funzione di “sostituto” di Maclon e Chilion, i due figli defunti della donna. Per il narratore, tuttavia, è importante sottolineare due particolari: il nome del bambino e il suo posto in una “stirpe”.
Quanto al nome, Obed significa “servitore” e forse è sottinteso “del Signore”, che gli farebbe assumere maggiore dignità.
Circa la stirpe, bisogna osservare che qui si trova la “sorpresa”. Obed fu il padre di Iesse, il quale fu a sua volta il padre di Davide, il grande re d’Israele, il vero iniziatore della monarchia, colui che ha dato il periodo d’oro a questo popolo, che lo ricorda con particolare nostalgia e affetto. Davide è il re ideale, al quale si ispirerà la tradizione successiva ogni qual volta penserà al Messia che dovrà liberare Israele dai suoi nemici e restituirgli il lustro che gli spetta.
Questa è la discendenza di Peres: [
] Nacson generò Salmon, Salmon generò Booz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide [vv. 18.20-22]. I versetti dal 18 al 22 illustrano con maggiore ampiezza la discendenza.
Si comincia da Perez, figlio di Giuda, figlio di Giacobbe.
In tal modo, Davide è legato ai patriarchi e alle promesse fatte a loro. Tra gli antenati è annoverato anche uno che ha partecipato all’esodo ed è stato contemporaneo di Mosè: si tratta di Nacson. Abbiamo, allora, due gruppi di cinque generazioni ciascuno: il primo congiunge i patriarchi con l’esodo, il secondo l’esodo con Davide. Il pensiero non può non andare all’inizio del Vangelo di Matteo, dove è riportata la generazione di Gesù. L’autore del libro di Rut ha dimostrato coraggio presentando la stirpe del re Davide, il quale ha avuto tra i suoi antenati una moabita. Anche il Primo Vangelo ripeterà, a sua volta: «Naassòn generò Salmon, Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide» (Mt 1,4-6).
Momento della meditatio
La lectio ha illustrato il senso del brano e ci ha permesso di raccogliere tutto quello che si rivela utile per il passo successivo, la meditatio, durante la quale avviene il confronto con altre parti della Scrittura e, soprattutto, con la nostra vita cristiana.
Concentriamo l’attenzione su due temi: la gioia portata dai figli e il re Davide figura di Cristo.
Cominciamo dalla gioia portata dai figli. La nostra società vive un grande problema, al quale non si presta la dovuta attenzione: il calo demografico.
Tante coppie, per ragioni diverse e non poche volte estremamente serie, rimandano o escludono la nascita di un figlio. Vi sono altre, però, per le quali un’evenienza del genere è considerata un peso, un fardello che ostacola la conduzione di una vita normale, perché la cura di un figlio condiziona la carriera, le relazioni e il tempo libero. Avere un figlio, si sa bene, comporta sacrifici, rinunce, preoccupazioni, ansie e perfino tensioni nella coppia. A fare da contrappeso, poi, ci sono tanti coniugi che desiderano tantissimo un figlio, da essere disposti a tutto, anche sottoporsi a cure dispendiose e pericolose, pur di coronare il loro sogno.
La Parola di Dio ci presenta ogni nascita come una fonte di gioia, perché ogni figlio è una promessa di speranza e di futuro. Non solo, è soprattutto un dono di Dio, della sua benevolenza.
Non a caso, la sterilità è ritenuta una vera disgrazia e dalle donne della Bibbia vista quasi come un castigo, perché tocca nel profondo la loro dignità di persone e il loro ruolo nella trasmissione della vita.
Anche Gesù, parlando ai suoi discepoli dopo l’Ultima cena, ricorda la grandezza di un tale evento: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21).
Veniamo al secondo tema: il re Davide figura di Cristo. Abbiamo fatto notare che il libro da noi letto in questa Quaresima ci presentava alla fine una sorpresa. Infatti, sembrava che avessimo di fronte una storia che, dopo tanti ostacoli, al termine si concludeva con il lieto fine: un matrimonio d’amore e un figlio.
Tutto questo lo troviamo, ma all’autore preme ricordare che Rut, nonostante sia una straniera e per di più una moabita – cioè proveniente da una popolazione molto invisa a Israele – entra a far parte a pieno titolo degli antenati di Davide. Per noi cristiani c’è da aggiungere che ella è anche una lontana antenata di Gesù, il Messia.
In Davide, dunque, si annuncia qualcuna delle importanti caratteristiche di Gesù, nelle cui vene scorrono anche gocce di sangue di popolazioni pagane. Ciò vuol dire che in lui non esiste più separazione. Come dice la Lettera agli Efesini, al capitolo 2, versetto 14: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne».
Nella sua vita Davide ha riunito in un solo popolo le tribù d’Israele, ha governato con giustizia e ha avuto nei confronti di Dio l’affetto di un figlio; ha vinto i suoi nemici e ha portato pace al suo popolo. In misura più grande e con una portata universale ha fatto lo stesso anche Gesù, il Figlio di Dio: nella Pasqua ha vinto il peccato e la morte, suoi nemici, e ci ha donato la riconciliazione.
Infine, in Davide, che fu unto con l’olio, possiamo rispecchiarci noi cristiani, unti con il crisma.
Perciò, benedicendo quest’olio nella Messa crismale, il vescovo pronuncia le seguenti parole: «Il profeta Davide, misticamente presago dei sacramenti futuri, cantò quest’olio, che fa splendere di gioia il nostro volto».
Momento dell’actio
Passiamo adesso agli impegni concreti.
Ormai Pasqua è alle porte e abbiamo ancora qualche buona occasione per caratterizzare la nostra Quaresima come preparazione al passaggio dal male verso il bene. Vorrei raccomandare di avere particolare cura per la vita nascente e l’infanzia, memori della gioia di cui ci ha parlato la Parola di Dio. Carissimi, sosteniamo le giovani famiglie che affrontano difficoltà e incoraggiamole, affinché abbiano il necessario per crescere i figli con dignità, amorevolezza, impegno educativo, gioia e fiducia verso il futuro.
È necessario che di questo si facciano carico anche le autorità politiche: si adoperino per combattere la crisi demografica, aiutino di più le famiglie e facciano aumentare le occasioni di lavoro! A ognuno di voi, poi, voglio augurare di poter vivere una santa Pasqua nella pace, nella serenità e con un grande spirito di riconciliazione.
Il Signore vi aiuti a essere come Davide, combattendo contro i vizi, le pigrizie e i peccati.
Ritroviamo il senso più genuino dell’unzione battesimale, riscopriamo la nostra figliolanza divina. Impariamo a respirare il profumo del crisma, rigettando quello pestilenziale del male.
@ Crescenzio Card. Sepe
Arcivescovo Metropolita di Napoli