Formazione Permanente Clero
“Il Presbiterato strumento della Tenerezza di Dio”
Un mistico islamico del Medioevo scriveva: “Cosa mai avrà bisbigliato il Signore all’orecchio della pietra laggiù in fondo alla miniera per farla brillare come una pietra preziosa?
Cosa mai avrà bisbigliato all’orecchio della rosa per farla sorridere con quello splendore di gioia?
Ma cosa mai avrà bisbigliato il Signore all’orecchio di Adamo quando lo ha creato e gli ha sorriso?
Misericordia e perdono” (Gialal Ed-Din Rumi, mistico sufita, XIII secolo).
La misericordia del Signore avvolge davvero tutta la nostra vita, dal primo istante all’ultimo, che però – questa è la nostra fede – è il penultimo perché l’ultimo non ci sarà, dal momento che sarà l’eterno presente della gioia del Paradiso.
Questa mattina ci ritroviamo insieme a riflettere, alla luce del secondo capitolo del Sussidio sul rinnovamento del Clero a partire dalla formazione permanente della Conferenza Episcopale Italiana Lievito di Fraternità, sul presbitero come “Strumento della tenerezza di Dio”.
Quello della tenerezza è un tema molto caro a Papa Francesco, un invito che egli sempre rivolge a tutti i fedeli cristiani, e in modo particolare a noi sacerdoti.
Ricorderete le parole che pronunciò già nell’Omelia del suo insediamento al soglio petrino il 19 marzo 2013:
“Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!”, e poco dopo ribadì: “Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!”.
Nel secondo capitolo della Evangelii Gaudium, testo programmatico del suo Pontificato come lui stesso lo ha definito, in una sezione dal titolo “Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo”, inoltre scrive:
“L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza” (EG 88).
Quello della tenerezza del presbitero potrebbe risultare un tema forse troppo generico, se non scontato, banale, da far storcere il naso o da destare un po’ di sospetti dentro di noi, inducendo a improbabili semplificazioni o riducendo il tutto ad un formale sorriso o una pacca sulla spalla, data con paternalismo.
Il Papa ci parla invece e ci invita fortemente a realizzare quella che chiama una “rivoluzione” (altro che banalità e formalismo!);
e gli stessi Vescovi italiani indicano la tenerezza come un atteggiamento da coltivare per rinnovare quotidianamente il proprio Sì al Signore e il proprio ministero.
Nulla dunque di scontato, di banale, ma una realtà da accogliere, da approfondire, da cui lasciarsi plasmare.
Cerchiamo allora di comprendere di cosa effettivamente si sta parlando e di come incarnarlo nella vita e nel ministero.
Mi premuro premettere, innanzitutto, che ci ritroviamo nell’ambito dell’amore, che è lo specifico del vissuto cristiano alla luce degli insegnamenti di Gesù;
pur appartenendo tuttavia all’ambito della carità, la tenerezza ha un suo specifico, una sua peculiarità, che la differenzia dall’agape.
Mons. Carlo Rocchetta, che ha particolarmente approfondito questo tema e che ha fondato a Perugia La Casa della Tenerezza, comunità impegnata nella formazione e nell’accompagnamento di fidanzati e di sposi, già docente di Teologia Sacramentaria alla Gregoriana, ha scritto:
“Lo specifico della tenerezza, rispetto alla carità-agape, è dato dal pàthos, dal coinvolgimento sensibile delle più profonde dimensioni della persona, comprese quella corporea ed emotiva… Se l’amore agapico è puro dono e pura accoglienza, la tenerezza implica la tensione passionale a farsi dono e accoglienza, in un coinvolgimento viscerale in prima persona… La tenerezza conferisce all’agape un afflato speciale di partecipazione affettiva, un sentire ricco di simpatia e di empatia… La tenerezza appella alla carità; la carità appella alla tenerezza” (Carlo Rocchetta).
La tenerezza indica dunque il coinvolgimento affettivo, che fa sì che la carità non si riduca a semplici gesti da compiere, ad azioni pur buone ma col rischio di essere vuote,
azioni che la tenerezza riempie invece di umanità, di pathos, di vicinanza.
Vorrei insieme con voi riflettere su quattro punti per poter cogliere la ricchezza e la bellezza di questo atteggiamento:
innanzitutto “Il fondamento in Dio”, fonte di ogni tenerezza;
successivamente guardare “L’agire di Gesù”, che incarna e rende manifesta, concreta, tangibile la tenerezza del Padre;
successivamente, quasi a mo’ della teologia apofatica, chiederci “Cosa non è tenerezza”, per sgombrare il campo da possibili equivoci e da atteggiamenti sbagliati;
infine domandarci “Come si esprime, anche nella Pastorale, la Tenerezza” così da avere alcuni possibili ambiti di applicazione e spunti per la condivisione successiva.
Il Fondamento in Dio
Come ci sollecitano gli esperti di Sacra Scrittura, è nel comune campo semantico della misericordia che dobbiamo individuare il termine “tenerezza” e scorgere il suo autentico significato.
Non mi fermo a fare l’analisi dei termini che si collegano e che esprimono biblicamente la tenerezza (non è il luogo per queste riflessioni… e non ne avremmo il tempo), ma vorrei sottolineare alcuni passaggi significativi dell’Antico Testamento che ci confermano come tale atteggiamento appartenga a Dio.
Possiamo innanzitutto parlare di una dimensione kenotica della tenerezza divina, descritta con forte pathos in Osea 11,1-4:
“Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio … A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”;
l’esperienza di Israele nell’Esodo è riletta in termini di estrema tenerezza paterna.
Veramente suggestiva l’immagine di questo Padre che si china, si abbassa sul bambino per dargli da mangiare oppure per insegnargli a camminare, tenendolo per la mano, proprio come si fa con il proprio figlio piccolino.
Per esprimere la tenerezza di Dio la Bibbia parla anche di viscere mate la tenerezza ha un suo specifico, una sua peculiarità, che la differenzia dall’agape.
Mons. Carlo Rocchetta, che ha particolarmente approfondito questo tema e che ha fondato a Perugia La Casa della Tenerezza, comunità impegnata nella formazione e nell’accompagnamento di fidanzati e di sposi, già docente di Teologia Sacramentaria alla Gregoriana, ha scritto:
“Lo specifico della tenerezza, rispetto alla carità-agape, è dato dal pàthos, dal coinvolgimento sensibile delle più profonde dimensioni della persona, comprese quella corporea ed emotiva… Se l’amore agapico è puro dono e pura accoglienza, la tenerezza implica la tensione passionale a farsi dono e accoglienza, in un coinvolgimento viscerale in prima persona… La tenerezza conferisce all’agape un afflato speciale di partecipazione affettiva, un sentire ricco di simpatia e di empatia… La tenerezza appella alla carità; la carità appella alla tenerezza” (Carlo Rocchetta).
La tenerezza indica dunque il coinvolgimento affettivo, che fa sì che la carità non si riduca a semplici gesti da compiere, ad azioni pur buone ma col rischio di essere vuote,
azioni che la tenerezza riempie invece di umanità, di pathos, di vicinanza.
Vorrei insieme con voi riflettere su quattro punti per poter cogliere la ricchezza e la bellezza di questo atteggiamento:
innanzitutto “Il fondamento in Dio”, fonte di ogni tenerezza;
successivamente guardare “L’agire di Gesù”, che incarna e rende manifesta, concreta, tangibile la tenerezza del Padre;
successivamente, quasi a mo’ della teologia apofatica, chiederci “Cosa non è tenerezza”, per sgombrare il campo da possibili equivoci e da atteggiamenti sbagliati;
infine domandarci “Come si esprime, anche nella Pastorale, la Tenerezza” così da avere alcuni possibili ambiti di applicazione e spunti per la condivisione successiva.
Il Fondamento in Dio
Come ci sollecitano gli esperti di Sacra Scrittura, è nel comune campo semantico della misericordia che dobbiamo individuare il termine “tenerezza” e scorgere il suo autentico significato.
Non mi fermo a fare l’analisi dei termini che si collegano e che esprimono biblicamente la tenerezza (non è il luogo per queste riflessioni… e non ne avremmo il tempo), ma vorrei sottolineare alcuni passaggi significativi dell’Antico Testamento che ci confermano come tale atteggiamento appartenga a Dio.
Possiamo innanzitutto parlare di una dimensione kenotica della tenerezza divina, descritta con forte pathos in Osea 11,1-4:
“Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio … A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”;
l’esperienza di Israele nell’Esodo è riletta in termini di estrema tenerezza paterna.
Veramente suggestiva l’immagine di questo Padre che si china, si abbassa sul bambino per dargli da mangiare oppure per insegnargli a camminare, tenendolo per la mano, proprio come si fa con il proprio figlio piccolino.
Per esprimere la tenerezza di Dio la Bibbia parla anche di viscere materne che fremono di compassione.
Dio per Isaia è come una madre che non può dimenticare la sua creatura. Anzi, se dolorosamente può accadere che una madre abbandoni il proprio figlio, Dio invece non ci dimenticherà mai (“Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai…” Is 49,14-16).
L’immagine di Dio-madre ritorna però anche alla fine del libro di Isaia con accenti particolarmente intensi.
Il profeta vuole trasmetterci, e ci riesce, il suo entusiasmo per il progetto divino che porta fino in fondo la gestazione della salvezza.
I figli di Gerusalemme saranno come bambini coccolati in braccio alla mamma:
Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò (Is 66,12-13).
L’immagine del padre/madre che si china sulla propria creatura per imboccarla traspare anche nel Salmo che recita: “Apri la tua bocca, la voglio riempire” (Sal 81,11).
Dio, dunque, non è l’essere lontano, indifferente, inarrivabile; già il Primo Testamento ci presenta un Dio ricco di misericordia, con accenti di autentica tenerezza verso il suo popolo, verso le sue creature.
Indicativa diventa così la forma cultuale riportata in Es 34, 6-7:
“Il Signore, il Signore, Dio tenero e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà”; e nei Salmi, per esprimere l’essere e l’agire di Dio, ritornerà spesso l’atteggiamento della tenerezza legata alla pietà, alla misericordia, alla fedeltà;
“pietà e tenerezza è il Signore” esclama ad esempio il Salmo 111, 4; oppure “tenero e giusto è il Signore” dice il Salmo 116, 5; e ancora nel Sal 103, 13: “Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono”.
La nota biblista Suor Elena Bosetti bene sintetizza il percorso vissuto dal popolo eletto nell’Antico Testamento: “Dio ha posto in atto per Israele tutta la cura e l’affetto che un genitore (padre/madre) riserva alla sua creatura. Dio trova la sua gioia nel prendersi cura dei suoi figli, nel chinarsi per nutrire e per rialzare chi cade, per sostenere e rinvigorire i passi incerti sulla via della vita”.
Come non ricordare al riguardo la bellissima definizione che di Dio diede Papa Giovanni Paolo I, destando scalpore in chi lo ascoltava, ma venendo poi ripreso da tutti i suoi successori: “noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre” (Papa Giovanni Paolo I il 10 settembre 1978). Dio è Padre e Madre, e come Padre/Madre nutre amore, misericordia, tenerezza verso i suoi figli!
L’agire di Gesù
Possiamo efrne che fremono di compassione.
Dio per Isaia è come una madre che non può dimenticare la sua creatura. Anzi, se dolorosamente può accadere che una madre abbandoni il proprio figlio, Dio invece non ci dimenticherà mai (“Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai…” Is 49,14-16).
L’immagine di Dio-madre ritorna però anche alla fine del libro di Isaia con accenti particolarmente intensi.
Il profeta vuole trasmetterci, e ci riesce, il suo entusiasmo per il progetto divino che porta fino in fondo la gestazione della salvezza.
I figli di Gerusalemme saranno come bambini coccolati in braccio alla mamma:
Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò (Is 66,12-13).
L’immagine del padre/madre che si china sulla propria creatura per imboccarla traspare anche nel Salmo che recita: “Apri la tua bocca, la voglio riempire” (Sal 81,11).
Dio, dunque, non è l’essere lontano, indifferente, inarrivabile; già il Primo Testamento ci presenta un Dio ricco di misericordia, con accenti di autentica tenerezza verso il suo popolo, verso le sue creature.
Indicativa diventa così la forma cultuale riportata in Es 34, 6-7:
“Il Signore, il Signore, Dio tenero e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà”; e nei Salmi, per esprimere l’essere e l’agire di Dio, ritornerà spesso l’atteggiamento della tenerezza legata alla pietà, alla misericordia, alla fedeltà;
“pietà e tenerezza è il Signore” esclama ad esempio il Salmo 111, 4; oppure “tenero e giusto è il Signore” dice il Salmo 116, 5; e ancora nel Sal 103, 13: “Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono”.
La nota biblista Suor Elena Bosetti bene sintetizza il percorso vissuto dal popolo eletto nell’Antico Testamento: “Dio ha posto in atto per Israele tutta la cura e l’affetto che un genitore (padre/madre) riserva alla sua creatura. Dio trova la sua gioia nel prendersi cura dei suoi figli, nel chinarsi per nutrire e per rialzare chi cade, per sostenere e rinvigorire i passi incerti sulla via della vita”.
Come non ricordare al riguardo la bellissima definizione che di Dio diede Papa Giovanni Paolo I, destando scalpore in chi lo ascoltava, ma venendo poi ripreso da tutti i suoi successori: “noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre” (Papa Giovanni Paolo I il 10 settembre 1978). Dio è Padre e Madre, e come Padre/Madre nutre amore, misericordia, tenerezza verso i suoi figli!
L’agire di Gesù
Possiamo effettivamente comprendere l’agire di Gesù come un “luogo teologico” di rivelazione, essendo Egli il Verbo incarnato, come ci ricorda il Prologo giovanneo e la fede ci insegna;
i suoi atti rappresentano le incarnazioni storiche dei sentimenti che Dio-Trinità nutre per gli uomini, dunque anche della tenerezza.
Ce lo ricorda bene l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “La vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi” (1 Gv 1, 2).
Fermo la mia attenzione solamente su alcuni incontri vissuti da Gesù, che però risultano particolarmente indicativi e rivelativi.
In casa di Simone il fariseo, lascia che una donna, da tutti conosciuta come peccatrice, gli bagni i piedi con le lacrime e li asciughi coi capelli (cf. Lc 7, 44-48).
Gesù non la allontana, non la ferma, ma la accoglie, fino a prenderne addirittura le difese.
Non solo Gesù mostra tenerezza, ma direi che innanzittutto la accetta, in qualche modo la attende dai suoi discepoli: accetta la tenerezza di quella donna, etichettata, quasi cristallizzata nella sua condizione di peccatrice,
lasciandosi da lei toccare, baciare, profumare i piedi. Ecco lo scandalo della tenerezza.
Gesù accoglie la tenerezza e chiama alla tenerezza il duro Simone il giusto, e tutti quanti noi, difendendo quella donna.
Gesù ama la tenerezza!
I Sinottici ci raccontano inoltre la guarigione della suocera di Pietro, che è a letto con la febbre (cf. Mc 1, 29-31; Lc 4, 38-39);
Gesù avrebbe potuto guarirla a distanza o anche fissandola dall’alto in basso ed invece, mettendo insieme le diverse tradizioni, notiamo che si china su di lei, la prende per mano e così la rialza. Non distanza, ma vicinanza e tenerezza!
La tenerezza, dunque, come vicinanza e non distanza!
Altra guarigione emblematica è quella dell’emorroissa (cf. Lc 8, 43-48);
il Maestro non si accontenta di guarirla, ma si ferma per guardarla negli occhi, per farle percepire che lei è preziosa e importante per Dio; non la lascia nella folla, nell’anonimato come pure i discepoli avrebbero voluto fare, ma la fa emergere, intesse un dialogo personale.
In tutte queste situazioni di guarigione (e in tante altre, come per il figlio della vedova di Nain o dell’uomo dalla mano inaridita… e altre ancora) si percepisce come Gesù cerchi e prediliga l’incontro personale, diretto, intimo che esprima la tenerezza di Dio.
Tale intenzione di fondo trova conferma negli insegnamenti offerti dal Maestro, in modo particolare nelle parabole.
Immediatamente ci ritorna alla mente il capitolo 15 dell’evangelista Luca, soprattutto col racconto del Padre Misericordioso (che dialoga personalmente col figlio, gli corre incontro, lo abbraccia e lo stringe a sé, ma che non manca di tenerezza anche nei confronti del figlio maggiore, andandogli incontro e cercando di toccargli il cuore);
potremmo pensare anche alla parabola della “vite e i tralci” (Gv 15), con l’insistenza a restare teneramente uniti a Gesù per avere vita, gioia, amore.
Altra parabola illuminante in tal senso è certamente quella del Buon samaritano, citata anche da Lievito di fraternità: “Quest’uomo, icona del Cristo, è segno e strumento della tenerezza di Dio, che riconosce la dignità presente in ogni uomo” dice il nostro documento, che nel secondo capitolo – oggetto delle nostre fettivamente comprendere l’agire di Gesù come un “luogo teologico” di rivelazione, essendo Egli il Verbo incarnato, come ci ricorda il Prologo giovanneo e la fede ci insegna;
i suoi atti rappresentano le incarnazioni storiche dei sentimenti che Dio-Trinità nutre per gli uomini, dunque anche della tenerezza.
Ce lo ricorda bene l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “La vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi” (1 Gv 1, 2).
Fermo la mia attenzione solamente su alcuni incontri vissuti da Gesù, che però risultano particolarmente indicativi e rivelativi.
In casa di Simone il fariseo, lascia che una donna, da tutti conosciuta come peccatrice, gli bagni i piedi con le lacrime e li asciughi coi capelli (cf. Lc 7, 44-48).
Gesù non la allontana, non la ferma, ma la accoglie, fino a prenderne addirittura le difese.
Non solo Gesù mostra tenerezza, ma direi che innanzittutto la accetta, in qualche modo la attende dai suoi discepoli: accetta la tenerezza di quella donna, etichettata, quasi cristallizzata nella sua condizione di peccatrice,
lasciandosi da lei toccare, baciare, profumare i piedi. Ecco lo scandalo della tenerezza.
Gesù accoglie la tenerezza e chiama alla tenerezza il duro Simone il giusto, e tutti quanti noi, difendendo quella donna.
Gesù ama la tenerezza!
I Sinottici ci raccontano inoltre la guarigione della suocera di Pietro, che è a letto con la febbre (cf. Mc 1, 29-31; Lc 4, 38-39);
Gesù avrebbe potuto guarirla a distanza o anche fissandola dall’alto in basso ed invece, mettendo insieme le diverse tradizioni, notiamo che si china su di lei, la prende per mano e così la rialza. Non distanza, ma vicinanza e tenerezza!
La tenerezza, dunque, come vicinanza e non distanza!
Altra guarigione emblematica è quella dell’emorroissa (cf. Lc 8, 43-48);
il Maestro non si accontenta di guarirla, ma si ferma per guardarla negli occhi, per farle percepire che lei è preziosa e importante per Dio; non la lascia nella folla, nell’anonimato come pure i discepoli avrebbero voluto fare, ma la fa emergere, intesse un dialogo personale.
In tutte queste situazioni di guarigione (e in tante altre, come per il figlio della vedova di Nain o dell’uomo dalla mano inaridita… e altre ancora) si percepisce come Gesù cerchi e prediliga l’incontro personale, diretto, intimo che esprima la tenerezza di Dio.
Tale intenzione di fondo trova conferma negli insegnamenti offerti dal Maestro, in modo particolare nelle parabole.
Immediatamente ci ritorna alla mente il capitolo 15 dell’evangelista Luca, soprattutto col racconto del Padre Misericordioso (che dialoga personalmente col figlio, gli corre incontro, lo abbraccia e lo stringe a sé, ma che non manca di tenerezza anche nei confronti del figlio maggiore, andandogli incontro e cercando di toccargli il cuore);
potremmo pensare anche alla parabola della “vite e i tralci” (Gv 15), con l’insistenza a restare teneramente uniti a Gesù per avere vita, gioia, amore.
Altra parabola illuminante in tal senso è certamente quella del Buon samaritano, citata anche da Lievito di fraternità: “Quest’uomo, icona del Cristo, è segno e strumento della tenerezza di Dio, che riconosce la dignità presente in ogni uomo” dice il nostro documento, che nel secondo capitolo – oggetto delle nostre riflessioni – muove proprio dal commento di questo brano biblico.
La tenerezza paterna/materna di Dio, messa in luce già nell’Antico Testamento, trova dunque nell’insegnamento e soprattutto nella vita di Gesù una inaudita concretezza e immediatezza!
Cosa non è “tenerezza”
Tenerezza non è debolezza
“Una puntualizzazione indispensabile per una corretta nozione antropologica concerne la distinzione tra tenerezza e tenerume… la prima implica la fortezza e si configura come un dinamismo attivo/creativo/responsabile; il secondo esprime piuttosto debolezza e conduce a un vissuto passivo/rassegnato/superficiale”: così si esprime don Carlo Rocchetta, precisando molto bene questa distinzione e questo possibile equivoco.
La tenerezza come condizione di prossimità è dunque ben diversa dalla mollezza. Biblicamente l’idea di essere “molle” si distingue anche etimologicamente da essere “tenero”; in ebraico, infatti, molle deriva dalla radice rak e in greco abbiamo malakos, termini mai utilizzati per esprimere la tenerezza; la mollezza ha una connotazione estremamente negativa, indicando il comportamento tipico delle genti la cui vita si adatta allo scorrere degli eventi e non ha un senso, una direzione, una legge.
“La tenerezza del pastore non ha nessuna connessione con le mollezze melliflue della paganità, ma si incarna nel vissuto di un popolo nomade, la cui natura errante impone una dolcezza di strada, che abbia l’odore della fatica e del sacrificio… Guidare teneramente significa non tanto abbandonarsi a smielati atteggiamenti di accondiscendenza, quanto guidare condividendo la fragilità degli ultimi” (Prof. Luigi Santopaolo).
Il pastore “tenero” non è dunque colui che si lascia andare a smancerie o moine, ma la guida sicura del popolo, che indica la strada, stando però dalla parte degli ultimi, dei poveri; bisogna dunque essere forti per poter essere teneri!
Tenerezza non è burocratismo
Nel discorso al comitato di coordinamento del Celam (Consiglio Episcopale Latino Americano), del 28 luglio 2013, durante il suo viaggio in Brasile per la GMG, Papa Francesco ha avuto modo di dire:
«Esistono in America Latina e nei Caraibi pastorali “lontane”, pastorali disciplinari che privilegiano i principi,riflessioni – muove proprio dal commento di questo brano biblico.
La tenerezza paterna/materna di Dio, messa in luce già nell’Antico Testamento, trova dunque nell’insegnamento e soprattutto nella vita di Gesù una inaudita concretezza e immediatezza!
Cosa non è “tenerezza”
Tenerezza non è debolezza
“Una puntualizzazione indispensabile per una corretta nozione antropologica concerne la distinzione tra tenerezza e tenerume… la prima implica la fortezza e si configura come un dinamismo attivo/creativo/responsabile; il secondo esprime piuttosto debolezza e conduce a un vissuto passivo/rassegnato/superficiale”: così si esprime don Carlo Rocchetta, precisando molto bene questa distinzione e questo possibile equivoco.
La tenerezza come condizione di prossimità è dunque ben diversa dalla mollezza. Biblicamente l’idea di essere “molle” si distingue anche etimologicamente da essere “tenero”; in ebraico, infatti, molle deriva dalla radice rak e in greco abbiamo malakos, termini mai utilizzati per esprimere la tenerezza; la mollezza ha una connotazione estremamente negativa, indicando il comportamento tipico delle genti la cui vita si adatta allo scorrere degli eventi e non ha un senso, una direzione, una legge.
“La tenerezza del pastore non ha nessuna connessione con le mollezze melliflue della paganità, ma si incarna nel vissuto di un popolo nomade, la cui natura errante impone una dolcezza di strada, che abbia l’odore della fatica e del sacrificio… Guidare teneramente significa non tanto abbandonarsi a smielati atteggiamenti di accondiscendenza, quanto guidare condividendo la fragilità degli ultimi” (Prof. Luigi Santopaolo).
Il pastore “tenero” non è dunque colui che si lascia andare a smancerie o moine, ma la guida sicura del popolo, che indica la strada, stando però dalla parte degli ultimi, dei poveri; bisogna dunque essere forti per poter essere teneri!
Tenerezza non è burocratismo
Nel discorso al comitato di coordinamento del Celam (Consiglio Episcopale Latino Americano), del 28 luglio 2013, durante il suo viaggio in Brasile per la GMG, Papa Francesco ha avuto modo di dire:
«Esistono in America Latina e nei Caraibi pastorali “lontane”, pastorali disciplinari che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti organizzativi… ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora la “rivoluzione della tenerezza” che provocò l’incarnazione del Verbo. Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli». Siamo così sicuri che il problema riguardi soltanto l'America Latina e i Caraibi? O forse è molto più diffuso nelle nostre regioni?
Per essere strumenti della tenerezza di Dio non possiamo lasciarci vincere da queste forme di distanza e di rigidità!
Tenerezza non è asprezza
“Che cosa aggiunge la tenerezza all’amore? Il tocco del gratuito, un sorriso, una carezza…” (Sr. Elena Bosetti).
Questa espressione della biblista Bosetti ci permette di cogliere un ulteriore atteggiamento che non è e non esprime tenerezza: l’asprezza del tratto!
Un aspetto comportamentale è l’asprezza del tratto, che indica scontrosità, durezza, ruvidezza, rigore, intransigenza, rigidità. Purtroppo dobbiamo riconoscere che tante volte i nostri stili – nel modo di accogliere le persone, di dire le cose, di insegnare e anche di correggere – possono manifestare, per i motivi più diversi, quali ad esempio la stanchezza o un certo affanno pastorale o…altro, queste caratteristiche, che allontanano poi i fedeli.
Comprendiamo bene anche qui che non si tratta di porre in atto smancerie o sdolcinature, ma di saper approcciarsi all’altro con garbo e con rispetto, con umanità.
Come sottolineato dalla Bosetti, si tratta di riscoprire il valore del sorriso!
Ci sono in giro già troppi volti corrucciati e arrabbiati… almeno i nostri devono potersi aprire ad un sorriso sincero e cordiale! Il contrario non permette alla tenerezza di manifestarsi! Tenerezza non è asprezza ma cordialità!
Come si esprime, anche nella pastorale, la Tenerezza
Il valore del rapporto interpersonale
«Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione… Serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente».
Nel rapporto con il mondo contemporaneo, con le nostre società secolarizzate e in crisi, con coloro che sembrano così distanti, il «fondamento del dialogo» lo si trova nelle parole del Concilio Vaticano II, quelle del famoso ìncipit della Costituzione pastorale Gaudium et Spes:
«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e di quanti soffrono, sono a loro volta gioie e speranze, tristezze e angosce dei discepoli di Cristo» (GS 1). le condotte, i procedimenti organizzativi… ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora la “rivoluzione della tenerezza” che provocò l’incarnazione del Verbo. Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli». Siamo così sicuri che il problema riguardi soltanto l'America Latina e i Caraibi? O forse è molto più diffuso nelle nostre regioni?
Per essere strumenti della tenerezza di Dio non possiamo lasciarci vincere da queste forme di distanza e di rigidità!
Tenerezza non è asprezza
“Che cosa aggiunge la tenerezza all’amore? Il tocco del gratuito, un sorriso, una carezza…” (Sr. Elena Bosetti).
Questa espressione della biblista Bosetti ci permette di cogliere un ulteriore atteggiamento che non è e non esprime tenerezza: l’asprezza del tratto!
Un aspetto comportamentale è l’asprezza del tratto, che indica scontrosità, durezza, ruvidezza, rigore, intransigenza, rigidità. Purtroppo dobbiamo riconoscere che tante volte i nostri stili – nel modo di accogliere le persone, di dire le cose, di insegnare e anche di correggere – possono manifestare, per i motivi più diversi, quali ad esempio la stanchezza o un certo affanno pastorale o…altro, queste caratteristiche, che allontanano poi i fedeli.
Comprendiamo bene anche qui che non si tratta di porre in atto smancerie o sdolcinature, ma di saper approcciarsi all’altro con garbo e con rispetto, con umanità.
Come sottolineato dalla Bosetti, si tratta di riscoprire il valore del sorriso!
Ci sono in giro già troppi volti corrucciati e arrabbiati… almeno i nostri devono potersi aprire ad un sorriso sincero e cordiale! Il contrario non permette alla tenerezza di manifestarsi! Tenerezza non è asprezza ma cordialità!
Come si esprime, anche nella pastorale, la Tenerezza
Il valore del rapporto interpersonale
«Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione… Serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente».
Nel rapporto con il mondo contemporaneo, con le nostre società secolarizzate e in crisi, con coloro che sembrano così distanti, il «fondamento del dialogo» lo si trova nelle parole del Concilio Vaticano II, quelle del famoso ìncipit della Costituzione pastorale Gaudium et Spes:
«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e di quanti soffrono, sono a loro volta gioie e speranze, tristezze e angosce dei discepoli di Cristo» (GS 1).
Il primo modo dunque di incarnare la tenerezza consiste nel privilegiare il rapporto personale, mediante soprattutto il dialogo.
Ciò presuppone tutta una serie di accorgimenti, di attenzioni: innanzitutto la capacità di fermarsi, mentre siamo invece sempre troppo di corsa;
inoltre il dedicare tempo, perché l’incontro non si esaurisce mai in poche battute, fatte di fretta;
poi il guardarsi negli occhi, per riscoprire il volto del fratello;
ancora l’attenzione al linguaggio non verbale, che in tanti casi comunica molte più cose di quelle dette a voce;
e poi la disponibilità a lasciarsi toccare da quanto l’altro comunica, senza star lì a snocciolare risposte già pronte e preconfezionate. Dobbiamo vincere questa tentazione! La tentazione di “inquadrare”, di “far entrare”, quasi di “imprigionare” la persona che ci apre il cuore in una casistica che ci può sì rassicurare ma che rischia di farci venir meno al servizio pastorale dell’accompagnare, del discernere e dell’integrare.
Dunque, rispetto ad una società che sempre di più privilegia la comunicazione via social (si pensi a whatsapp, facebook, instagram…), riscoprire come irrinciabile l’incontro personale!
“…così come alcuni vorrebbero un Cristo puramente spirituale, senza carne e senza croce, si pretendono anche relazioni interpersonali solo mediate da apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e spegnere a comando. Nel frattempo, il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo” (Evangelii Gaudium 88).
Come non pensare, da questo punto di vista, al valore che nel corso dei secoli ha avuto la “direzione spirituale personale” per la formazione delle coscienze, per la crescita nella fede, per il discernimento vocazionale a tutti i livelli.
Quanto è difficile oggi (anche se comprendo la fatica e la molteplicità degli impegni) trovare chi si dedichi a questo fondamentale esercizio! Ritornano forse simpaticamente in mente le parole di Celentano nella canzone Azzurro: “nemmeno un prete per chiacchierar”!
Mi sembra molto interessante al riguardo una riflessione di don Domenico Cravero, sociologo e psicoterapeuta, ma soprattutto parroco della Diocesi di Torino e fondatore della Cooperativa Sociale “Terra Mia”:
“Ci lamentiamo continuamente della vita frenetica che conduciamo, la quale non ci permette di stare con le persone come vorremmo. Siamo spesso insoddisfatti di come viviamo i nostri affetti. Vorremmo ricevere di più; vorremmo poter dare di più. La maggior parte delle nostre occupazioni e preoccupazioni riguarda i nostri legami” e poi, commentando l’Amoris Laetitia, con una meditazione rivolta agli sposi, ma che può far bene a tutti, invita: “C’è bisogno d’imparare un nuovo alfabeto degli affetti e un diverso costume dell’amore. Questo cammino lo istituisce l’esercizio quotidiano della tenerezza. Esige però di potersi dedicare reciprocamente tempi di qualità, dedicati a incontrare l’altro con pazienza e attenzione, con l’ascolto e la parola, nell’esercizio quotidiano a «spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio» (AL 137)” (don Domenico Cravero).
Da Biblista, Elena Bosetti ci ricorda che “
Il primo modo dunque di incarnare la tenerezza consiste nel privilegiare il rapporto personale, mediante soprattutto il dialogo.
Ciò presuppone tutta una serie di accorgimenti, di attenzioni: innanzitutto la capacità di fermarsi, mentre siamo invece sempre troppo di corsa;
inoltre il dedicare tempo, perché l’incontro non si esaurisce mai in poche battute, fatte di fretta;
poi il guardarsi negli occhi, per riscoprire il volto del fratello;
ancora l’attenzione al linguaggio non verbale, che in tanti casi comunica molte più cose di quelle dette a voce;
e poi la disponibilità a lasciarsi toccare da quanto l’altro comunica, senza star lì a snocciolare risposte già pronte e preconfezionate. Dobbiamo vincere questa tentazione! La tentazione di “inquadrare”, di “far entrare”, quasi di “imprigionare” la persona che ci apre il cuore in una casistica che ci può sì rassicurare ma che rischia di farci venir meno al servizio pastorale dell’accompagnare, del discernere e dell’integrare.
Dunque, rispetto ad una società che sempre di più privilegia la comunicazione via social (si pensi a whatsapp, facebook, instagram…), riscoprire come irrinciabile l’incontro personale!
“…così come alcuni vorrebbero un Cristo puramente spirituale, senza carne e senza croce, si pretendono anche relazioni interpersonali solo mediate da apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e spegnere a comando. Nel frattempo, il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo” (Evangelii Gaudium 88).
Come non pensare, da questo punto di vista, al valore che nel corso dei secoli ha avuto la “direzione spirituale personale” per la formazione delle coscienze, per la crescita nella fede, per il discernimento vocazionale a tutti i livelli.
Quanto è difficile oggi (anche se comprendo la fatica e la molteplicità degli impegni) trovare chi si dedichi a questo fondamentale esercizio! Ritornano forse simpaticamente in mente le parole di Celentano nella canzone Azzurro: “nemmeno un prete per chiacchierar”!
Mi sembra molto interessante al riguardo una riflessione di don Domenico Cravero, sociologo e psicoterapeuta, ma soprattutto parroco della Diocesi di Torino e fondatore della Cooperativa Sociale “Terra Mia”:
“Ci lamentiamo continuamente della vita frenetica che conduciamo, la quale non ci permette di stare con le persone come vorremmo. Siamo spesso insoddisfatti di come viviamo i nostri affetti. Vorremmo ricevere di più; vorremmo poter dare di più. La maggior parte delle nostre occupazioni e preoccupazioni riguarda i nostri legami” e poi, commentando l’Amoris Laetitia, con una meditazione rivolta agli sposi, ma che può far bene a tutti, invita: “C’è bisogno d’imparare un nuovo alfabeto degli affetti e un diverso costume dell’amore. Questo cammino lo istituisce l’esercizio quotidiano della tenerezza. Esige però di potersi dedicare reciprocamente tempi di qualità, dedicati a incontrare l’altro con pazienza e attenzione, con l’ascolto e la parola, nell’esercizio quotidiano a «spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio» (AL 137)” (don Domenico Cravero).
Da Biblista, Elena Bosetti ci ricorda che “La tenerezza di Gesù si esprime nel dare volto, nome, significato”, come abbiamo analizzato prima:
siamo dunque chiamati a mettere da parte la logica dei numeri e delle masse, lo stile della fretta e dell’ansia, per riscoprire l’enorme valore e potenziale dell’incontro interpersonale!
Anche il Sussidio della CEI lo indica nel capitolo che stiamo approfondendo, sottolineando che “Il presbitero fa proprio lo stile e le virtù del pastore: lo muove l’attenzione per ciascuna pecora del gregge, la vigilanza perché nessuna si smarrisca, la disponibilità ad accompagnare il cammino con una cura particolare per le più deboli e una passione forte per quante si sono perdute” (Lievito di Fraternità 2).
La premura del prendersi cura
È l’atteggiamento della “premura”, cioè la sollecitudine, la cura, l’attenzione.
Tutti conosciamo la triste constatazione fatta da Madre Teresa di Calcutta: “il vero male è l’indifferenza!”.
Purtroppo dobbiamo riconoscere che certe volte, per i motivi più disparati, talvolta anche per “dettagli” che possiamo trascurare perché li riteniamo appunto inessenziali, le persone possono cogliere nei nostri atteggiamenti non premura, attenzione, condivisione del loro stato d’animo e delle loro difficoltà, ma piuttosto distacco, lontananza, quasi indifferenza;
non dimentichiamo al riguardo la parabola del Buon Samaritano, citata dal Sussidio della CEI, in cui il sacerdote e il levita passano oltre mentre solo il forestiero si ferma e si prende cura! Chi non si è fermato aveva certamente le sue “ragioni”, ragioni che però hanno in maniera scellerata impedito l’incontro.
Nella già citata omelia per l’insediamento al soglio pontificio, papa Francesco così si espresse: “E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore” (Papa Francesco 19 marzo 2013).
Siamo nella logica dell’amore autentico, che non si accontenta di apprendere il male dell’altro, ma si sforza di condividerlo e insieme di superarlo, per quanto possibile. Comprendiamo allora in una maniera ancora più profonda che tenerezza non consiste in una semplice pacca sulla spalla o in una pur buona carezza, ma nella capacità di attenzione e di compassione;
riguarda dunque il cuore, che simile al cuore di Cristo si fa attento alle necessità del fratello e se ne fa carico.
La confessione
La tenerezza di Gesù si esprime nel dare volto, nome, significato”, come abbiamo analizzato prima:
siamo dunque chiamati a mettere da parte la logica dei numeri e delle masse, lo stile della fretta e dell’ansia, per riscoprire l’enorme valore e potenziale dell’incontro interpersonale!
Anche il Sussidio della CEI lo indica nel capitolo che stiamo approfondendo, sottolineando che “Il presbitero fa proprio lo stile e le virtù del pastore: lo muove l’attenzione per ciascuna pecora del gregge, la vigilanza perché nessuna si smarrisca, la disponibilità ad accompagnare il cammino con una cura particolare per le più deboli e una passione forte per quante si sono perdute” (Lievito di Fraternità 2).
La premura del prendersi cura
È l’atteggiamento della “premura”, cioè la sollecitudine, la cura, l’attenzione.
Tutti conosciamo la triste constatazione fatta da Madre Teresa di Calcutta: “il vero male è l’indifferenza!”.
Purtroppo dobbiamo riconoscere che certe volte, per i motivi più disparati, talvolta anche per “dettagli” che possiamo trascurare perché li riteniamo appunto inessenziali, le persone possono cogliere nei nostri atteggiamenti non premura, attenzione, condivisione del loro stato d’animo e delle loro difficoltà, ma piuttosto distacco, lontananza, quasi indifferenza;
non dimentichiamo al riguardo la parabola del Buon Samaritano, citata dal Sussidio della CEI, in cui il sacerdote e il levita passano oltre mentre solo il forestiero si ferma e si prende cura! Chi non si è fermato aveva certamente le sue “ragioni”, ragioni che però hanno in maniera scellerata impedito l’incontro.
Nella già citata omelia per l’insediamento al soglio pontificio, papa Francesco così si espresse: “E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore” (Papa Francesco 19 marzo 2013).
Siamo nella logica dell’amore autentico, che non si accontenta di apprendere il male dell’altro, ma si sforza di condividerlo e insieme di superarlo, per quanto possibile. Comprendiamo allora in una maniera ancora più profonda che tenerezza non consiste in una semplice pacca sulla spalla o in una pur buona carezza, ma nella capacità di attenzione e di compassione;
riguarda dunque il cuore, che simile al cuore di Cristo si fa attento alle necessità del fratello e se ne fa carico.
La confessione
La tenerezza del pastore nel confessionale!
Particolarmente bello è il passaggio del documento quando dice, a proposito del ministero della riconciliazione, che il pasto
La tenerezza del pastore nel confessionale!
Particolarmente bello è il passaggio del documento quando dice, a proposito del ministero della riconciliazione, che il pasto