L’omelia in suffragio di tutti i Defunti dell’Arcivescovo Don Mimmo Battaglia nella Chiesa Monumentale del Cimitero di Poggioreale:
“Commemoriamo oggi tutti i fedeli defunti, tutti coloro che abbiamo amato e che ci hanno preceduto fra le braccia del Padre, varcando la soglia ultima della vita. L’esperienza della morte si è fatta vicina a tutti noi ogni volta che abbiamo vissuto un lutto, ci ha posto interrogativi, ha incontrato le nostre domande e le nostre ribellioni, ha suscitato dolore e gratitudine insieme. Dolore per il distacco delle persone amate, per la sofferenza che spesso ha accompagnato il loro morire, dolore per non averli amati a sufficienza, ma anche gratitudine: per il dono di aver vissuto loro accanto, per tutto ciò che da loro abbiamo ricevuto, per la fede che spesso ci hanno testimoniato.
Oggi vogliamo ricordare anche tutti coloro che nessuno ricorda, tutti coloro che sono morti tragicamente, tutte le vittime del terrorismo a qualsiasi religione appartengano, le vittime dell’ingiustizia, della fame, della guerra, dei trafficanti senza scrupoli di esseri umani, tutti i bambini non nati. Li vogliamo ricordare nella certezza che tutti vivono presso Dio, che tutti sono posti dal sacrificio redentore di Gesù sotto il segno della sua Pasqua. Sì, la Pasqua di Gesù costituisce la chiave di volta di questo giorno, costituisce la luce che ci dona speranza, costituisce il senso stesso di questa celebrazione. Ogni volta che noi celebriamo questo giorno in realtà celebriamo la Pasqua di Gesù, la fede nella sua morte e nella sua risurrezione, la sua presenza fra noi nel segno del pane, la forza dirompente di vita nuova del suo perdono. Celebriamo la vita senza fine che inizia proprio lì dove la parola fine sembra avere la vittoria.
Beati voi! Forse ci stupirà che il Vangelo odierno sia lo stesso di ieri. La liturgia ci fa ascoltare la medesima Parola, lo stesso lieto annuncio tanto nella festa di Tutti i Santi, quanto nella Commemorazione dei fedeli defunti, poiché uno solo è il destino dell’umanità: la vita piena di tutti gli uomini in Cristo.
Oggi siamo invitati a commemorare tutti i nostri cari defunti pensandoli come beati. Certamente beati, perché ormai le tribolazioni della vita sono alle loro spalle, perché passati oltre il dolore della prova, della tentazione e della morte. Ma se la beatitudine fosse solo questo, quello di Gesù non sarebbe un insegnamento, ma una semplice dichiarazione. Invece quello di Gesù è un insegnamento rivolto a noi oggi, è tutt’altro che una parola di consolazione: è una parola densa di Vangelo, densa di concretezza, vibrante di gioia, animata da una speranza indistruttibile. Ciò che ci rende beati non è la possibilità – impossibile per l’uomo! – di passare la vita indenni, di giungere al capolinea con le mani pulite. No, ciò che ci rende beati è la fiducia nella parola di Gesù che vive in noi e che, attraverso noi, vuole manifestare che la felicità è più grande del pianto, la mitezza è più forte della violenza, la giustizia è il completamento di tutto ciò che è umano, la misericordia è cifra delle relazioni, la purezza di cuore è la possibilità di vedere sempre il volto di Dio, l’azione di pace è l’espressione della nostra figliolanza da Dio, la sopportazione della sofferenza è possibile per amore di Cristo che ha dato interamente se stesso per noi. La Parola vissuta ci rende «relativi» a Gesù, ci fa dire con San Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»! Questo vuol dire essere beati! Divenire beati! Così come vorrei che qualcuno mi ricordasse, per lottare contro ogni paura, la volontà di Dio, quella vera. Troppi ce l’hanno insegnata identificandola nell’immagine della sofferenza e della morte: “È la volontà di Dio” ci ripetevano, instancabili, in verità senza cuore.
Ma che cosa è volontà di Dio l’ho rinvenuto scritto nel Vangelo di Giovanni là dove Gesù dice ai suoi: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato. Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).
Questa e non altra è la volontà di Dio, volontà di risurrezione, questa la parola che mi dà forza contro la paura.
Vi confesso che altre parole mi sono care e mi risuonano dentro. Sono parole che mi succede spesso di ricordare quando penso ai molti miei amici non credenti. Una di queste parole riguarda l’amore. Ebbene neanche la morte, all’apparenza così vincente su tutto e su tutti, può cantare vittoria sull’amore, ne esce sconfitta.
Come ci ha ricordato la morte di Gesù. Ha così amato che è risorto, un amore simile non poteva rimanere costretto in una tomba. L’amore non sta in una tomba, ha passi di vento. Come ci ricorda una lettera di Giovanni, dove troviamo scritto: “Da questo sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte”. Mi colpisce il presente: “Oggi” è detto, “passiamo dalla morte alla vita perché amiamo”. “Chi non ama rimane nella morte” come a dire che è già morto da questa vita. Questo, dunque, il discrimine: se amiamo o non amiamo.
Siamo riuniti nel nome di Gesù, perché vogliamo celebrare la vita. Vogliamo pregare, perché il Signore della vita custodisca nelle sue mani provvidenziali tutti i nostri cari defunti. Ciò che è accaduto nel cimitero di Poggioreale, ci fa scoprire la nostra nudità, la povertà dell’essere umano. Ci fa scoprire anche il nostro essere fratelli gli uni degli altri. Il dolore è la casa comune in cui ci troviamo. Quando accadono situazioni spiacevoli, ci accorgiamo che abbiamo bisogno di prenderci cura gli uni degli altri. Allora seppellire i morti non riguarda solo la pietà religiosa di un popolo, ma il senso civile dello stare insieme.
Vi è una storia nell’Antico Testamento che mi fa sempre molto pensare e che riguardava due uomini: un vecchio e un giovane, un padre e un figlio: Tobi e Tobia. Questi due, stranieri in terre lontane, dinanzi a un potere che affama i poveri e che nega i diritti più elementari alla gente, hanno il coraggio di soccorrere chi sta in difficoltà; hanno il coraggio di dare una degna sepoltura ai poveri che non hanno mezzi e a quelli che erano lasciati lungo il ciglio della strada. Hanno pietà di quei corpi senza nomi che il tempo avrebbe consumato. Non importava a loro chi fossero stati quei morti o a quale estrazione sociale appartenessero o quanta ricchezza avessero accumulato in vita, ma importava la pietà da rivolgere a quei corpi senza identità.
Il loro grande merito è quello di aver creduto che il senso civico non è privilegio di un solo popolo, ma è qualcosa che accomuna tutto il genere umano. Ci riguarda, perché quelle spoglie senza nomi possono essere mio fratello, mia sorella, mio padre, mia madre. Tobi e Tobia non hanno età, perché tutti sono chiamati ad assumersi la responsabilità di seppellire i morti, perché ci appartengono. Questi uomini del passato, ma che sono di esempio anche oggi, insegnano ad avere cura dei propri defunti, anzi di tutti i defunti, anche di quelli di cui non si conosce il nome. Questo si chiama rispetto per tutto ciò che è vita dal suo nascere al suo tramonto. Rispetto!! Il rispetto è la cifra della civiltà di un popolo; è il grado più alto di vita spirituale per chi si rivolge al Dio dei viventi.
Il rispetto richiama non solo la dignità di chi è morto, ma anche quella delle famiglie accomunate dallo stesso dolore. Non sono solo ossa senza nomi, ma quei resti rimandano a storie, a volti. Si ha il dovere di seppellire degnamente quei resti, perché sono storie di sacrifici. Si ha il dovere di dare risposte, chiedendo giustizia e pietà per chi non abbiamo saputo proteggere nel sonno della morte. Quei resti sono la memoria del nostro passato. Quelle tombe non sono monumenti lasciati al tempo, ma sono presenza di grandi e di piccoli, di uomini e donne che ancora oggi ci narrano l’amore che hanno avuto per i loro familiari.
Il rispetto genera la cura, una cura continua e constante dei luoghi e delle persone che ogni giorno affollano i cimiteri per continuare un dialogo tra la vita e la morte. Nei cimiteri si sosta in silenzio e preghiera, perché sono luoghi di speranza.
Avere cura degli altri comporta anche un aver cura dei nostri territori degradati. Quando la nostra attenzione è posta sulla vita, allora viene spontaneo guardarci attorno e osservare che stiamo trascurando proprio il nostro territorio corroso dall’incuria del tempo e da scelte non sempre corrispondenti alle reali esigenze delle città. Non sono cose diverse la cura per i nostri fratelli defunti e l’attenzione alla terra che si ribella quando viene maltrattata.
Non possiamo dimenticare il fatto accaduto; non possiamo tacere le conseguenze che ha avuto e non possiamo coprirne le responsabilità. La vicinanza sta proprio nel ricercare la verità e difenderla; sta nel promuovere una collaborazione reciproca, in cui la fraternità si respira nell’accoglienza delle necessità di chi ha avuto una doppia perdita: la morte e lo scempio dei resti mortali. Accomunati dallo stesso dolore cerchiamo giustizia, perché non accada più una situazione simile. Abbiamo bisogno di creare luoghi sicuri, in cui possiamo piangere senza avere la paura di crolli. Abbiamo bisogno di dare dignità alle tombe, di tutte le tombe.
C’è una fessura aperta sull’oltre, su ciò che dura aldilà del tramonto del giorno: credere nella resurrezione è sapere che il nostro amare non è inutile, ma sarà raccolto goccia a goccia e vissuto per sempre; che il nostro lottare non è inutile; che non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza. Che nessuna lacrima andrà perduta, mai.
L’immagine di quelle bare sospese nel vuoto è una ferita aperta per tutti... e mi riporta alle tante vite “sospese” che abitano questa città: a coloro che sopravvivono sulla strada, a coloro che hanno perso il lavoro, a chi non ce la fa, a chi è precario a vita, a coloro cui la vita è segnata dalla solitudine, a chi ha perso la speranza, alle donne vittime di violenza, ai bambini a cui è rubato il presente. Non possiamo permetterlo. Occorre reagire contro ogni logica di indifferenza, contro ogni forma di omertà e di soprusi! C’è bisogno di cura, di responsabilità, di impegno. Di giustizia sociale. E ognuno deve fare la sua parte. Ma insieme.
Il Signore ci insegna ad avere più paura di una vita sbagliata che non della morte. A temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultima frontiera che oltrepasseremo aggrappandoci forte al cuore che non ci lascerà cadere. Perché si muoia io non lo so. Sono però convinto che il senso della morte, come quello della vita, dell’amicizia, della giustizia, e quello supremo di Dio non sta mai in fondo ai nostri ragionamenti, ma sempre e soltanto in fondo al nostro impegno.
Ci aiuti il Signore a far risorgere ogni giorno, ogni ora la speranza. E a vivere da risorti. Dalla parte della vita. Dalla parte della giustizia.”