MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IV GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
“Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32)
“Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32). La sapienza antica ha posto queste parole come un codice sacro da seguire nella vita. Esse risuonano oggi con tutta la loro carica di significato per aiutare anche noi a concentrare lo sguardo sull’essenziale e superare le barriere dell’indifferenza.
La povertà assume sempre volti diversi, che richiedono attenzione ad ogni condizione particolare: in ognuna di queste possiamo incontrare il Signore Gesù, che ha rivelato di essere presente nei suoi fratelli più deboli (cfr Mt 25,40).
1. Prendiamo tra le mani il Siracide, uno dei libri dell’Antico Testamento. Qui troviamo le parole di un maestro di saggezza vissuto circa duecento anni prima di Cristo. Egli andava in cerca della
sapienza che rende gli uomini migliori e capaci di scrutare a fondo le vicende della vita. Lo faceva in un momento di dura prova per il popolo d’Israele, un tempo di dolore, lutto e miseria a causa del dominio di potenze straniere. Essendo un uomo di grande fede, radicato nelle tradizioni dei padri, il suo primo pensiero fu di rivolgersi a Dio per chiedere a Lui il dono della sapienza. E il Signore non gli fece mancare il suo aiuto.
Fin dalle prime pagine del libro, il Siracide espone i suoi consigli su molte concrete situazioni di vita, e la povertà è una di queste. Egli insiste sul fatto che nel disagio bisogna avere fiducia in Dio: «Non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. Nelle malattie e nella povertà confida in lui. Affidati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui. Voi che temete il Signore, aspettate la sua misericordia e non deviate, per non cadere» (2,2-7).
2. Pagina dopo pagina, scopriamo un prezioso compendio di suggerimenti sul modo di agire alla luce di un’intima relazione con Dio, creatore e amante del creato, giusto e provvidente verso tutti i suoi figli. Il costante riferimento a Dio, tuttavia, non distoglie dal guardare all’uomo concreto, al contrario, le due cose sono strettamente connesse.
Lo dimostra chiaramente il brano da cui è tratto il titolo di questo Messaggio (cfr 7,29-36). La preghiera a Dio e la solidarietà con i poveri e i sofferenti sono inseparabili. Per celebrare un culto
che sia gradito al Signore, è necessario riconoscere che ogni persona, anche quella più indigente e disprezzata, porta impressa in sé l’immagine di Dio. Da tale attenzione deriva il dono della
benedizione divina, attirata dalla generosità praticata nei confronti del povero. Pertanto, il tempo da dedicare alla preghiera non può mai diventare un alibi per trascurare il prossimo in difficoltà. È vero il contrario: la benedizione del Signore scende su di noi e la preghiera raggiunge il suo scopo quando sono accompagnate dal servizio ai poveri.
3. Quanto è attuale questo antico insegnamento anche per noi! Infatti la Parola di Dio oltrepassa lo spazio, il tempo, le religioni e le culture. La generosità che sostiene il debole, consola l’afflitto, lenisce le sofferenze, restituisce dignità a chi ne è privato, è condizione di una vita pienamente umana. La scelta di dedicare attenzione ai poveri, ai loro tanti e diversi bisogni, non può essere condizionata dal tempo a disposizione o da interessi privati, né da progetti pastorali o sociali disincarnati. Non si può soffocare la forza della grazia di Dio per la tendenza narcisistica di
mettere sempre sé stessi al primo posto.
Tenere lo sguardo rivolto al povero è difficile, ma quanto mai necessario per imprimere alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione. Non si tratta di spendere tante parole, ma piuttosto di impegnare concretamente la vita, mossi dalla carità divina. Ogni anno, con la Giornata Mondiale dei Poveri, ritorno su questa realtà fondamentale per la vita della Chiesa, perché i poveri sono e saranno sempre con noi (cfr Gv 12,8) per aiutarci ad accogliere la compagnia di Cristo nell’esistenza quotidiana.
4. Sempre l’incontro con una persona in condizione di povertà ci provoca e ci interroga. Come possiamo contribuire ad eliminare o almeno alleviare la sua emarginazione e la sua sofferenza?
Come possiamo aiutarla nella sua povertà spirituale? La comunità cristiana è chiamata a coinvolgersi in questa esperienza di condivisione, nella consapevolezza che non le è lecito
delegarla ad altri. E per essere di sostegno ai poveri è fondamentale vivere la povertà evangelica in prima persona. Non possiamo sentirci “a posto” quando un membro della famiglia umana è
relegato nelle retrovie e diventa un’ombra. Il grido silenzioso dei tanti poveri deve trovare il popolo di Dio in prima linea, sempre e dovunque, per dare loro voce, per difenderli e solidarizzare con essi davanti a tanta ipocrisia e tante promesse disattese, e per invitarli a partecipare alla vita della comunità.
Èvero, la Chiesa non ha soluzioni complessive da proporre, ma offre, con la grazia di Cristo, la sua testimonianza e gesti di condivisione. Essa, inoltre, si sente in dovere di presentare le istanze
di quanti non hanno il necessario per vivere. Ricordare a tutti il grande valore del bene comune è per il popolo cristiano un impegno di vita, che si attua nel tentativo di non dimenticare nessuno di coloro la cui umanità è violata nei bisogni fondamentali.
5. Tendere la mano fa scoprire, prima di tutto a chi lo fa, che dentro di noi esiste la capacità di compiere gesti che danno senso alla vita. Quante mani tese si vedono ogni giorno! Purtroppo,
accade sempre più spesso che la fretta trascina in un vortice di indifferenza, al punto che non si sa più riconoscere il tanto bene che quotidianamente viene compiuto nel silenzio e con grande
generosità. Accade così che, solo quando succedono fatti che sconvolgono il corso della nostra vita, gli occhi diventano capaci di scorgere la bontà dei santi “della porta accanto”, «di quelli che
vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 7), ma di cui nessuno parla. Le cattive notizie abbondano sulle pagine dei giornali, nei siti internet e
sugli schermi televisivi, tanto da far pensare che il male regni sovrano. Non è così. Certo, non mancano la cattiveria e la violenza, il sopruso e la corruzione, ma la vita è intessuta di atti di
rispetto e di generosità che non solo compensano il male, ma spingono ad andare oltre e ad essere pieni di speranza.
6. Tendere la mano è un segno: un segno che richiama immediatamente alla prossimità, alla solidarietà, all’amore. In questi mesi, nei quali il mondo intero è stato come sopraffatto da un virus
che ha portato dolore e morte, sconforto e smarrimento, quante mani tese abbiamo potuto vedere!
La mano tesa del medico che si preoccupa di ogni paziente cercando di trovare il rimedio giusto.
La mano tesa dell’infermiera e dell’infermiere che, ben oltre i loro orari di lavoro, rimangono ad accudire i malati. La mano tesa di chi lavora nell’amministrazione e procura i mezzi per salvare
quante più vite possibile. La mano tesa del farmacista esposto a tante richieste in un rischioso contatto con la gente. La mano tesa del sacerdote che benedice con lo strazio nel cuore. La mano
tesa del volontario che soccorre chi vive per strada e quanti, pur avendo un tetto, non hanno da mangiare. La mano tesa di uomini e donne che lavorano per offrire servizi essenziali e sicurezza.
E altre mani tese potremmo ancora descrivere fino a comporre una litania di opere di bene. Tutte queste mani hanno sfidato il contagio e la paura pur di dare sostegno e consolazione.
7. Questa pandemia è giunta all’improvviso e ci ha colto impreparati, lasciando un grande senso di disorientamento e impotenza. La mano tesa verso il povero, tuttavia, non è giunta improvvisa.
Essa, piuttosto, offre la testimonianza di come ci si prepara a riconoscere il povero per sostenerlo nel tempo della necessità. Non ci si improvvisa strumenti di misericordia. È necessario un
allenamento quotidiano, che parte dalla consapevolezza di quanto noi per primi abbiamo bisogno di una mano tesa verso di noi. Questo momento che stiamo vivendo ha messo in crisi tante certezze. Ci sentiamo più poveri e più deboli perché abbiamo sperimentato il senso del limite e la restrizione della libertà. La perdita del lavoro, degli affetti più cari, come la mancanza delle consuete relazioni interpersonali hanno di colpo spalancato orizzonti che non eravamo più abituati a osservare. Le nostre ricchezze spirituali e materiali sono state messe in discussione e abbiamo scoperto di avere paura. Chiusi nel silenzio delle nostre case, abbiamo riscoperto quanto sia importante la semplicità e il tenere gli occhi fissi sull’essenziale. Abbiamo maturato l’esigenza di una nuova fraternità, capace di aiuto reciproco e di stima vicendevole. Questo è un tempo favorevole per «sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo […]. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà […]. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente» (Lett. enc. Laudato si’, 229). Insomma, le gravi crisi economiche, finanziarie e politiche non cesseranno fino a quando permetteremo che rimanga in letargo la responsabilità che ognuno deve sentire verso il prossimo ed ogni persona.
8. “Tendi la mano al povero”, dunque, è un invito alla responsabilità come impegno diretto di chiunque si sente partecipe della stessa sorte. È un incitamento a farsi carico dei pesi dei più
deboli, come ricorda San Paolo: «Mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. […]
Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 5,13-14; 6,2). L’Apostolo insegna che la libertà che ci è stata donata con la morte e risurrezione di Gesù Cristo è per ciascuno di noi una responsabilità per
mettersi al servizio degli altri, soprattutto dei più deboli. Non si tratta di un’esortazione facoltativa, ma di una condizione dell’autenticità della fede che professiamo.
Il libro del Siracide ritorna in nostro aiuto: suggerisce azioni concrete per sostenere i più deboli e usa anche alcune immagini suggestive. Dapprima prende in considerazione la debolezza di quanti sono tristi: «Non evitare coloro che piangono» (7,34). Il periodo della pandemia ci ha costretti a un forzato isolamento, impedendoci perfino di poter consolare e stare vicino ad amici e conoscenti afflitti per la perdita dei loro cari. E ancora afferma l’autore sacro: «Non esitare a visitare un malato» (7,35). Abbiamo sperimentato l’impossibilità di stare accanto a chi soffre, e al tempo stesso abbiamo preso coscienza della fragilità della nostra esistenza. Insomma, la Parola di Dio non ci lascia mai tranquilli e continua a stimolarci al bene.
9. “Tendi la mano al povero” fa risaltare, per contrasto, l’atteggiamento di quanti tengono le mani in tasca e non si lasciano commuovere dalla povertà, di cui spesso sono anch’essi complici.
L’indifferenza e il cinismo sono il loro cibo quotidiano. Che differenza rispetto alle mani generose che abbiamo descritto! Ci sono, infatti, mani tese per sfiorare velocemente la tastiera di un
computer e spostare somme di denaro da una parte all’altra del mondo, decretando la ricchezza di ristrette oligarchie e la miseria di moltitudini o il fallimento di intere nazioni. Ci sono mani tese ad accumulare denaro con la vendita di armi che altre mani, anche di bambini, useranno per seminare morte e povertà. Ci sono mani tese che nell’ombra scambiano dosi di morte per
arricchirsi e vivere nel lusso e nella sregolatezza effimera. Ci sono mani tese che sottobanco scambiano favori illegali per un guadagno facile e corrotto. E ci sono anche mani tese che nel
perbenismo ipocrita stabiliscono leggi che loro stessi non osservano.
In questo panorama, «gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una
globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri
né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 54). Non potremo essere contenti fino a quando queste
mani che seminano morte non saranno trasformate in strumenti di giustizia e di pace per il mondo intero.
10. «In tutte le tue azioni, ricordati della tua fine» (Sir 7,36). È l’espressione con cui il Siracide conclude questa sua riflessione. Il testo si presta a una duplice interpretazione. La prima fa
emergere che abbiamo bisogno di tenere sempre presente la fine della nostra esistenza.
Ricordarsi il destino comune può essere di aiuto per condurre una vita all’insegna dell’attenzione a chi è più povero e non ha avuto le stesse nostre possibilità. Esiste anche una seconda
interpretazione, che evidenzia piuttosto il fine, lo scopo verso cui ognuno tende. È il fine della nostra vita che richiede un progetto da realizzare e un cammino da compiere senza stancarsi.
Ebbene, il fine di ogni nostra azione non può essere altro che l’amore. È questo lo scopo verso cui siamo incamminati e nulla ci deve distogliere da esso. Questo amore è condivisione, dedizione e servizio, ma comincia dalla scoperta di essere noi per primi amati e risvegliati all’amore. Questo fine appare nel momento in cui il bambino si incontra con il sorriso della mamma e si sente amato per il fatto stesso di esistere. Anche un sorriso che condividiamo con il povero è sorgente di amore e permette di vivere nella gioia. La mano tesa, allora, possa sempre arricchirsi del sorriso di chi non fa pesare la propria presenza e l’aiuto che offre, ma gioisce solo di vivere lo stile dei discepoli di Cristo.
In questo cammino di incontro quotidiano con i poveri ci accompagna la Madre di Dio, che più di ogni altra è la Madre dei poveri. La Vergine Maria conosce da vicino le difficoltà e le sofferenze di quanti sono emarginati, perché lei stessa si è trovata a dare alla luce il Figlio di Dio in una stalla.
Per la minaccia di Erode, con Giuseppe suo sposo e il piccolo Gesù è fuggita in un altro paese, e la condizione di profughi ha segnato per alcuni anni la santa Famiglia. Possa la preghiera alla
Madre dei poveri accomunare questi suoi figli prediletti e quanti li servono nel nome di Cristo. E la preghiera trasformi la mano tesa in un abbraccio di condivisione e di fraternità ritrovata.
Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2020, Memoria liturgica di Sant’Antonio di Padova.
Francesco
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Riflessione al MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IV GIORNATA MONDIALE DEI POVERI di Domenica XXXIII del Tempo Ordinario 15 novembre 2020. “Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32)
L’incontro con il povero, il bisognoso, ci provoca, tenta di superare gli argini dell’indifferenza. Talvolta è un’indifferenza di autodifesa, un egoismo di sopravvivenza dinanzi a tanto dolore. Più spesso è un’indifferenza superficiale, di abitudine, di omologazione al comportamento dei più. Talvolta si tratta di complicità almeno tacita con chi provoca e supporta le sperequazioni economiche e il depauperamento del significato di umano, provocando degrado sociale ed emarginazione, ma anche degrado spirituale e della vita interiore in chi problemi economici non soffre, ma non impara a usare le proprie capacità relazionali, empatiche, di con-divisione.
Il Santo Padre mette al centro della Sua riflessione il Povero e lo indica nella sua concreta umanità quale paradigma dell’umanità contemporanea, derubata della dignità e della gioia, della pace, del necessario per vivere nella condizione della sua propria umanità.
Mentre troppi poveri sono privi dei beni di prima necessità, molti altri sono bisognosi di riscoprire la propria dignità umana; altri ancora hanno perso la propria capacità di amare e di farsi veicolo, canale di vita, di partecipazione alla vita. Che fare?
Egli si chiede come possiamo contribuire ad eliminare o, almeno, ad alleviare l’emarginazione e la sofferenza, come possiamo aiutare l’uomo nella sua povertà spirituale. La comunità cristiana è chiamata a spendersi e a capire che non le è lecito delegarla ad altri.” Non possiamo sentirci ‘a posto’ quando un membro della famiglia umana è relegato nelle retrovie e diventa un’ombra. Il grido silenzioso dei tanti poveri deve trovare il popolo di Dio in prima linea, sempre e dovunque, per dare loro voce, per difenderli e solidarizzare con essi davanti a tanta ipocrisia”.
Il riferimento al Siracide indirizza la riflessione verso l’originarietà di questa istanza: l’andare incontro al proprio simile in difficoltà appartiene da sempre al vivere insieme, proprio dell’essere umano e viene già registrato dall’autore ispirato del Libro come una norma di sapienza, di saper incarnare la propria umanità al meglio e di essere capace di scrutare a fondo le vicende della vita. Il fatto che l’Autore scrivesse in un momento di dura prova per il popolo d’Israele, in un tempo di dolore, lutto e miseria a causa del dominio di potenze straniere, può <mentre siamo in scacco di potenze straniere> ricordarci che: “tenere lo sguardo rivolto al povero è difficile, ma quanto mai necessario per imprimere alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione. Non si tratta di spendere tante parole, ma piuttosto di impegnare concretamente la vita, mossi dalla carità divina”. Tuttavia, non si tratta di un’opzione, ma di un modo di vivere. Infatti, il Santo Padre ricorda che: “La scelta di dedicare attenzione ai poveri, ai loro tanti e diversi bisogni, non può essere condizionata dal tempo a disposizione o da interessi privati, né da progetti pastorali o sociali disincarnati. Non si può soffocare la forza della grazia di Dio per la tendenza narcisistica di mettere sempre sé stessi al primo posto”.
Anche se la Chiesa non ha soluzioni complessive da proporre, – anche perché alla luce della distanza tra chiesa e potere politico l’umanità può crescere in comprensione critica e coscienza, può crescere eticamente – la Chiesa però, con la Grazia di Cristo, può testimoniare un’umanità che condivide.
Andare incontro al povero è senz’altro in prima istanza rispondere alle sue esigenze primarie – e il Siracide ci esorta a gesti di concretezza – ma farlo significa cominciare ad abbattere il muro dell’indifferenza e cominciare a sentirci al suo posto, con lui. Entrare in empatia. Erodere il male della nostra contemporaneità che è lo spegnersi dei neuroni dell’empatia, i neuroni specchio. Scegliere di farlo nonostante la nostra scarsa propensione e testimoniare che Grazia di Dio e Volontà dell’uomo possono stringere mani, asciugare lacrime, donare sorrisi, non solo riso.
Se, dunque, questo andare incontro ai bisogni dell’altro ci aiuta a rispondere alle esigenze di chi ha bisogno, contemporaneamente cura anche la povertà di chi finora è rimasto chiuso nella sua casa, nella sua parrocchia, nel suo giro di amici, nella sua tradizione, nel suo punto di vista. Forse la chiesa in uscita significa anche imparare a mettere in movimento i sentimenti, il proprio modo di comprendere la realtà, le proprie sicurezze. Diversi ordini della carità insegnano che il sorriso e l’ascolto sono le cose più preziose che si possano donare. E lo insegnano anche numerosi volontari laici che pensano di non avere fede in Cristo, perché hanno incontrato sempre testimoni grigi, chiusi nei dogmi e nelle stanze.
Il Siracide insegna anche questo: che l’andare incontro all’altro, sentendosi al suo posto, entrando in empatia – o se si preferisce – sentendolo fratello, significa comprendere il proprio limite, la propria vulnerabilità, l’essere esposti alla morte, come il povero, come tutti. Allora è più facile parlare di fraternità. Ed è bello che il Papa non sia solo a parlarne, ma che da più parti, culture diverse, sensibilità diverse lo facciano, come in un coro di un’umanità martoriata che riprenda a guardare alto. Una tra tutti la filosofia femminista contemporanea lo fa.
La pandemia ha come evidenziato in modo estremo questo limite e, se ha tragicamente tolto la vita a milioni di persone, ha infuso nuovo coraggio nell’umanità a causa di quanti (tanti) si sono spesi a rischio contagio e fino alla morte per la vita degli altri. Sono stati degli esempi i medici e gli operatori sanitari, ma anche i volontari e quanti in prima fila per il proprio lavoro, non si sono sottratti al loro dovere. Dunque, questa generazione non è malvagia o disumanizzata, ce la fa, è capace di entrare in empatia e di amare. Perché alla fine di amore si tratta. E non è facile, perché ne abbiamo paura. Ancora come nell’Eden ci nascondiamo alla Sua voce. Il Nostro Cardinale Arcivescovo, nella sua ultima lettera Pastorale Seppellire i morti, ci fornisce, al termine di essa alcune interessanti indicazioni di percorso pastorale caritativo. Infatti bisogna soccorrere i defunti non con le lacrime, ma con le preghiere, le elemosine e la carità Spesso -dice Papa Francesco- quando la morte arriva “ci troviamo impreparati, privi anche di un ‘alfabeto’ adatto per abbozzare parole di senso intorno al suo mistero che, comunque, rimane”.
Carissimi fratelli e sorelle, continua il Cardinale, eravamo abituati ad un’esistenza troppo spesso spensierata e superficiale, siamo stati colti d’improvviso da eventi che hanno sconvolto le nostre abitudini, il nostro stile di vita. Siamo stati travolti da uno smarrimento che ha minato le nostre certezze, da un’inquietudine che sembra non aver fine. Sono venute meno le convinzioni su cui finora avevamo fondato i nostri progetti di vita, spesso miopi, chiusi in ristretti orizzonti Riusciamo a vedere che il quotidiano diventa eroico, se raggiunto appena da un briciolo d’amore e di responsabilità, come è accaduto in questi mesi a tanti medici, infermieri, assistenti sanitari. A tanti che spontaneamente si sono messi a servizio della comunità per assistere chi era caduto per strada. “Siamo tutti sulla stessa barca”: è stata l’esperienza forte di questo tempo, bisognosi gli uni degli altri, chiamati a riscoprire la dimensione comunitaria della vita. Non ci si salva da soli; non si può morire da soli, come è successo a tanti anziani nei tanti istituti dove avrebbero dovuto vivere protetti e in pace. Bisogna riscoprire la saggezza del vivere insieme, come una grande famiglia dove si condividono gioie e dolori. Le nostre comunità parrocchiali devono essere sempre più famiglia di famiglie dove valgono non solo i legami di sangue, ma anche quei legami nati dallo Spirito di Dio perché in un mondo dominato dall”io’ si viva la bellezza e la gioia del ‘noi’. A ragione S. Giovanni Crisostomo diceva: «Bisogna soccorrere i defunti non con le lacrime,ma con le preghiere, le elemosine e la carità». “Seppellire i morti” non significa solo dare una dignitosa sistemazione ad un cadavere; è un affacciarsi sul mistero della vita che la fede –soprattutto in queste circostanze – ci aiuta a scoprire nel suo approdo eterno, nella sua attitudine di anticipare nella carità il senso alto della sua missione. Il sorriso dolce della Vergine ci sia di conforto, mentre ci dedichiamo ad asciugare le lacrime del tempo, in attesa di contemplarla da vicino nel giorno senza tramonto, quando «non vi sarà più morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Apoc 21,4).
Oltre alle indicazioni ed alle iniziative diocesane,sempre tenendo presente le misure anti-covid, ogni comunità è invitata a manifestare il suo essere caritatevole promuovendo iniziative con la realtà parrocchiale e locale. È opportuno che le comunità, nella settimana precedente la Giornata, si impegnino a creare momenti di preghiera, momenti di incontro, di amicizia, di solidarietà e di aiuto concreto per quanti soffrono. Un ricordo particole nella preghiera dei fedeli. Creare momenti di incontro e di amicizia, di solidarietà e di aiuto, invitare alla Messa, avvicinarsi ai poveri, accoglierli alla mensa, imparare da loro: non basterà certo una settimana per praticare questo programma nelle nostre parrocchie! La Caritas parrocchiale potrebbe riunirsi per tempo, magari insieme al Consiglio pastorale, per tradurre in agenda le concrete indicazioni del Papa , volte a maturare uno stile di attenzione verso i poveri e di comunione con essi capace di convertire pian piano il volto stesso della comunità.
Infine non possiamo trascurare il forte e semplice richiamo che Francesco fa alla preghiera come fondamento delle iniziative concrete verso e con i poveri e al breve commento che ci offre nel Messaggio sul Padre nostro come preghiera dei poveri. Sarà semplice ed efficace cogliere e realizzare brevi occasioni (in famiglia, con i bambini e i ragazzi al catechismo, nei gruppi, tra amici, nei momenti del volontariato e degli impegni, prima o dopo le celebrazioni, a casa degli ammalati…) per recitare insieme il Padre nostro, per i poveri e con loro, magari premettendo la lettura delle poche ma incisive righe che il Papa gli dedica appositamente. Tutto questo culminerà nella celebrazione Eucaristica di Domenica XXXIII del Tempo Ordinario
15 novembre 2020 novembre .Sabato 14 novembre, vigilia della IV Giornata dei poveri, ci incontreremo, sempre con le misure anti-covid, presso la Casa Comunità delle genti, voluta dal Cardinale , per un momento di riflessione dove i poveri pregheranno con noi e parleranno a noi. Detto incontro è presieduto dal Nostro padre Vescovo. Seguirà programma dettagliato.
La Caritas Diocesana rimane a completa disposizione per ogni supporto alle iniziative caritatevoli che verranno intraprese in tutto il territorio diocesano, anche indicando le realtà a cui serve una mano(mense, opere segno etc) o altro. Buon lavoro e ogni bene a tutti .
Don Enzo Cozzolino