Il Cardinale Sepe, che ama le metafore e, senza cedere alla “boria dei dotti”, si compiace di coniugare le citazioni non dotte a quelle classiche e solenni, ha intitolata a una di queste la sua ultima lettera pastorale, “Canta e cammina”. Una Chiesa adulta per una società responsabile.
Il riferimento ad Agostino, al quale è poi avvicinato, come si vedrà, un canto popolare, esprime bene il carattere, insieme semplice e complesso, di questo documento vescovile, energico, coraggioso, perfino impietoso nella denuncia a tutto raggio, senza convenzionalismi e ammiccamenti verso questo o verso quello.
Perciò non può non interessare quanti hanno a cuore le sorti del bene comune, quale cha sia l’ottica da cui si guarda.
È importante il riferimento agostiniano a un tema determinante del cristianesimo, cui Agostino, chiaramente, allude con la sua frase che, giustamente il Cardinale ritiene “un invito” ad “alleviare le asprezze della vita” e “insieme una esortazione a vivere e testimoniare la fede” per alimentare la speranza.
Il “cammino”, infatti, richiama un’altra parola (la via) con la quale, addirittura, Gesù, secondo Giovanni (14-6), nel momento tragico e solenne dell’addio dai suoi discepoli, definisce se stesso: «Io sono la via, la verità e la vita». Ebbene questa parola, coniugata con le altre due, è da ritenere la definizione stessa del cristianesimo, rispetto alle altre grandi religione monoteistiche.
Essere per via significa che il cristianesimo raccoglie, fonda la sfida della storia, le asprezze della storia, accetta di essere una lotta con la storia con una accettazione che mira a superarla e però la riconosce.
A me sembra che trasparentemente il Cardinale Sepe accetta questa significazione del cristianesimo, che non può non essere rispettata e condivisa anche dai laici, consapevoli del valore e del costo della vita.
E, infatti, subito questa Lettera pastorale mostra la sua precisa intenzionalità di “scelta metodologica per il prossimo anno pastorale”, come viene detto con chiarezza.
La scelta della “via” nel camminare e cantare significa prendere subito atto che “le condizioni economiche e sociali della nostra città destano seria preoccupazione”.
La constatazione non si ferma all’oggi, non è una dichiarazione contingente, è l’enunciazione di una consapevolezza rigorosa.
I “mali” sono “antichi”, la “crisi” viene da “lontano”. Il che è coscienza della profondità della dimensione della crisi. E però senza nessuna condiscendenza.
Questa visione, diciamo pure, storica non attenua la colpe del presente e la condanna severa del presente, che è la dolorosa, grave conclusione dei “mali antichi” e della “crisi nata lontano da noi”. “Se volessimo solo enumerare (e poco oltre il Cardinale le enumera) le sofferenze e le umiliazioni dei nostri cittadini, ci troveremmo di fronte a un interminabile, penoso elenco di disagi sociali. Aumenta il numero dei disoccupati e dei senza fissa dimora (barboni), degli emarginati (sconfitti) e dei disperati. Il futuro dei giovani e della città è a rischio”.
Che cosa dire di più severo, severamente impietoso (ossia senza sconti a nessuno), per fotografare non solo il presente ma il destino della nostra città e di coloro cui è affidato il futuro di essa? Non posso qui fermarmi sulle motivazioni che di questo giudizio e di questa preoccupazione che la Lettera pastorale enuncia con fermezza.
Mi limito a richiamare un’altra citazione, che illustra il gusto del Cardinale che ho ricordato iniziando e che è una scelta pedagogica, dichiarata subito, quando concluse la sua prima lettera alla città con un napoletanissimo “a’ maronna ce accumpagne”.
Questa volta, richiamando una canzone di Pino Daniele, il Cardinale riassume la sua diagnosi così: “Napule è ‘na carta sporca e nisciun se n’importa e ognuno aspetta ‘a ciorta”. Lo dice così, perché nessuno finga di non capire.
Come se non bastasse il Cardinale dà la traduzione del testo napoletano e lo rende, se possibile, più amaro: la “nostra città” è “come una carta sporca, una realtà imbrattata e ferita, di cui nessuno si prende cura”.
Sarebbe riduttivo scendere a questo punto nell’esemplificazione riduttiva, che è sotto gli occhi di tutti. Sì, certo le origini sono lontane, ma quando chi governa ritiene di dover invertire la tendenza? Per farlo non servono le parole, serve la capacità di essere impopolare, serve avvertire il dovere di affidare le proprie “fortune” politiche all’azione di governo rigorosa, senza pensare, per esempio, ai “grandi eventi” che, in realtà, sono piccole e pietose grandi mistificazioni, che offendono la dignità della città e dei cittadini.
Non servono le stucchevoli polemiche tra governanti di ieri e di oggi, che si piangono addosso e sciorinano parole che la realtà circostante smentisce e che nessuna bugiarda illusione giustificatoria può coprire. A Napoli si muore perché gli alberi non curati cadono e, cosa miserabile, si pensa di risolvere il problema non con la manutenzione ordinaria, ma tagliando gli alberi, in modo da rendere la città sfigurata ancora più brutta di quanto non sia diventata e diventi ogni giorno di più.
Il Cardinale, con pacata fermezza rifiuta tutto ciò e lo dice completando la sua visione del cristianesimo, giovanneo e agostiniano come via e vita. Egli, infatti, fa appello alla “cultura della responsabilità”, che, giustamente ritiene un dovere dei cristiani e, questa volta, mi sento di dire di tutti noi uomini moderni (se tali vogliamo essere senza infingimenti), che “non possiamo non dirci cristiani” in questo senso.
Perché che cosa significa essere “responsabili”? Significa richiamare un principio che il cristianesimo ha enunciato a riassunto della significazione etica della
“via” e della “vita” degli uomini, dove si riassumono e si uniscono “etica privata” ed “etica pubblica”: il libero arbitrio. Che cosa significa questo? Lo dico come ritengo che sia: la capacità di essere responsabili, perché Dio non sa che farsene di uomini che non siano responsabili, e cioè liberi in quanto capaci di trasformare la responsabilità in obbligazione. Ma si badi: la “responsabilità come obbligazione” non l'”obbligazione come responsabilità”.
A me sembra che questo sia il senso e il valore del severo richiamo del Cardinale.
L’obbligo a cui egli chiama i sacerdoti e i religiosi della sua Diocesi, ma anche tutti gli uomini di buona volontà,anche un laico quale io sono. A tutti, anche a chi si è candidato al governo della città sapendo di dover rendere un servizio non di esercitare tracotantemente un potere, il Cardinale ricorda che “l’origine di tutti i mali è nella condotta passiva, con cui ognuno – più che essere interprete del proprio futuro – si rassegna aspettando dalla sorte la soluzione dei propri problemi. Senza crescita della coscienza civica e della volontà di partecipazione, non si potrà mai sperare in un recupero decisivo della città”.
Confesso che, con angoscia, perdo sempre più la speranza. Sono convinto che siamo nella fase finale di una straordinaria, tremenda crisi culturale di categorie epistemologiche, di valori etici, di regole comportamentali, di dimensioni istituzionali e non so vedere la consapevolezza di questa crisi e la volontà agonistica di affrontarla senza infingimenti, mistificazioni, mezzucci illusionistici, sperando di coprire il disastro e ingannare chi si dovrebbe aiutare e difendere nella ricerca del futuro.
Mi auguro,con tutto il cuore, di sbagliare e perciò mi associo alla speranza del Cardinale, con la speranza che la sua denuncia e il suo appello siano ascoltati, meditati, accolti.
Il riferimento ad Agostino, al quale è poi avvicinato, come si vedrà, un canto popolare, esprime bene il carattere, insieme semplice e complesso, di questo documento vescovile, energico, coraggioso, perfino impietoso nella denuncia a tutto raggio, senza convenzionalismi e ammiccamenti verso questo o verso quello.
Perciò non può non interessare quanti hanno a cuore le sorti del bene comune, quale cha sia l’ottica da cui si guarda.
È importante il riferimento agostiniano a un tema determinante del cristianesimo, cui Agostino, chiaramente, allude con la sua frase che, giustamente il Cardinale ritiene “un invito” ad “alleviare le asprezze della vita” e “insieme una esortazione a vivere e testimoniare la fede” per alimentare la speranza.
Il “cammino”, infatti, richiama un’altra parola (la via) con la quale, addirittura, Gesù, secondo Giovanni (14-6), nel momento tragico e solenne dell’addio dai suoi discepoli, definisce se stesso: «Io sono la via, la verità e la vita». Ebbene questa parola, coniugata con le altre due, è da ritenere la definizione stessa del cristianesimo, rispetto alle altre grandi religione monoteistiche.
Essere per via significa che il cristianesimo raccoglie, fonda la sfida della storia, le asprezze della storia, accetta di essere una lotta con la storia con una accettazione che mira a superarla e però la riconosce.
A me sembra che trasparentemente il Cardinale Sepe accetta questa significazione del cristianesimo, che non può non essere rispettata e condivisa anche dai laici, consapevoli del valore e del costo della vita.
E, infatti, subito questa Lettera pastorale mostra la sua precisa intenzionalità di “scelta metodologica per il prossimo anno pastorale”, come viene detto con chiarezza.
La scelta della “via” nel camminare e cantare significa prendere subito atto che “le condizioni economiche e sociali della nostra città destano seria preoccupazione”.
La constatazione non si ferma all’oggi, non è una dichiarazione contingente, è l’enunciazione di una consapevolezza rigorosa.
I “mali” sono “antichi”, la “crisi” viene da “lontano”. Il che è coscienza della profondità della dimensione della crisi. E però senza nessuna condiscendenza.
Questa visione, diciamo pure, storica non attenua la colpe del presente e la condanna severa del presente, che è la dolorosa, grave conclusione dei “mali antichi” e della “crisi nata lontano da noi”. “Se volessimo solo enumerare (e poco oltre il Cardinale le enumera) le sofferenze e le umiliazioni dei nostri cittadini, ci troveremmo di fronte a un interminabile, penoso elenco di disagi sociali. Aumenta il numero dei disoccupati e dei senza fissa dimora (barboni), degli emarginati (sconfitti) e dei disperati. Il futuro dei giovani e della città è a rischio”.
Che cosa dire di più severo, severamente impietoso (ossia senza sconti a nessuno), per fotografare non solo il presente ma il destino della nostra città e di coloro cui è affidato il futuro di essa? Non posso qui fermarmi sulle motivazioni che di questo giudizio e di questa preoccupazione che la Lettera pastorale enuncia con fermezza.
Mi limito a richiamare un’altra citazione, che illustra il gusto del Cardinale che ho ricordato iniziando e che è una scelta pedagogica, dichiarata subito, quando concluse la sua prima lettera alla città con un napoletanissimo “a’ maronna ce accumpagne”.
Questa volta, richiamando una canzone di Pino Daniele, il Cardinale riassume la sua diagnosi così: “Napule è ‘na carta sporca e nisciun se n’importa e ognuno aspetta ‘a ciorta”. Lo dice così, perché nessuno finga di non capire.
Come se non bastasse il Cardinale dà la traduzione del testo napoletano e lo rende, se possibile, più amaro: la “nostra città” è “come una carta sporca, una realtà imbrattata e ferita, di cui nessuno si prende cura”.
Sarebbe riduttivo scendere a questo punto nell’esemplificazione riduttiva, che è sotto gli occhi di tutti. Sì, certo le origini sono lontane, ma quando chi governa ritiene di dover invertire la tendenza? Per farlo non servono le parole, serve la capacità di essere impopolare, serve avvertire il dovere di affidare le proprie “fortune” politiche all’azione di governo rigorosa, senza pensare, per esempio, ai “grandi eventi” che, in realtà, sono piccole e pietose grandi mistificazioni, che offendono la dignità della città e dei cittadini.
Non servono le stucchevoli polemiche tra governanti di ieri e di oggi, che si piangono addosso e sciorinano parole che la realtà circostante smentisce e che nessuna bugiarda illusione giustificatoria può coprire. A Napoli si muore perché gli alberi non curati cadono e, cosa miserabile, si pensa di risolvere il problema non con la manutenzione ordinaria, ma tagliando gli alberi, in modo da rendere la città sfigurata ancora più brutta di quanto non sia diventata e diventi ogni giorno di più.
Il Cardinale, con pacata fermezza rifiuta tutto ciò e lo dice completando la sua visione del cristianesimo, giovanneo e agostiniano come via e vita. Egli, infatti, fa appello alla “cultura della responsabilità”, che, giustamente ritiene un dovere dei cristiani e, questa volta, mi sento di dire di tutti noi uomini moderni (se tali vogliamo essere senza infingimenti), che “non possiamo non dirci cristiani” in questo senso.
Perché che cosa significa essere “responsabili”? Significa richiamare un principio che il cristianesimo ha enunciato a riassunto della significazione etica della
“via” e della “vita” degli uomini, dove si riassumono e si uniscono “etica privata” ed “etica pubblica”: il libero arbitrio. Che cosa significa questo? Lo dico come ritengo che sia: la capacità di essere responsabili, perché Dio non sa che farsene di uomini che non siano responsabili, e cioè liberi in quanto capaci di trasformare la responsabilità in obbligazione. Ma si badi: la “responsabilità come obbligazione” non l'”obbligazione come responsabilità”.
A me sembra che questo sia il senso e il valore del severo richiamo del Cardinale.
L’obbligo a cui egli chiama i sacerdoti e i religiosi della sua Diocesi, ma anche tutti gli uomini di buona volontà,anche un laico quale io sono. A tutti, anche a chi si è candidato al governo della città sapendo di dover rendere un servizio non di esercitare tracotantemente un potere, il Cardinale ricorda che “l’origine di tutti i mali è nella condotta passiva, con cui ognuno – più che essere interprete del proprio futuro – si rassegna aspettando dalla sorte la soluzione dei propri problemi. Senza crescita della coscienza civica e della volontà di partecipazione, non si potrà mai sperare in un recupero decisivo della città”.
Confesso che, con angoscia, perdo sempre più la speranza. Sono convinto che siamo nella fase finale di una straordinaria, tremenda crisi culturale di categorie epistemologiche, di valori etici, di regole comportamentali, di dimensioni istituzionali e non so vedere la consapevolezza di questa crisi e la volontà agonistica di affrontarla senza infingimenti, mistificazioni, mezzucci illusionistici, sperando di coprire il disastro e ingannare chi si dovrebbe aiutare e difendere nella ricerca del futuro.
Mi auguro,con tutto il cuore, di sbagliare e perciò mi associo alla speranza del Cardinale, con la speranza che la sua denuncia e il suo appello siano ascoltati, meditati, accolti.