La Bellezza del presepe

Quarta Lettera di Avvento 2022 di Don Mimmo Battaglia

“Quest’anno il mio Presepe è ancora vuoto. C’è il paesaggio, il fiume, il cielo e la grotta con la natività, e nient’altro. Non è esattamente vuoto, più che altro è spopolato. Non ci sono i pastori, gli zampognari, le pecorelle, gli angeli. Solo un paesaggio e un bambino con la sua famiglia.

Un vuoto da riempire: troppo silenzio, troppa solitudine. E non ho più i pastori, li avrò smarriti? Chissà… E, allora, quest’anno decido io chi mettere nel mio presepe, davanti a quella grotta, in cammino verso quel neonato. Mi piacerebbe che tutti i miei personaggi, in un modo o nell’altro, somigliassero a quel bambino, che avessero il suo volto; ma non è facile scegliere: Dio ha sei miliardi di volti. E quel bambino fissa gli appuntamenti per me dinanzi a quei volti. L’itinerario per arrivare a lui passa attraverso tutte le strade del mondo e soltanto “perdendo tempo” con quei volti ho la certezza di giungere puntuale dinanzi a lui. È sempre così.

E allora scelgo volti, quelli che Lui stesso ha trovato somiglianti a sé, volti che hanno fame, che hanno sete, volti nudi, volti forestieri, volti malati, carcerati. E mi ci metto anche io, perché se è nato in una stalla non si scandalizzerà di me, della mia miseria.

I volti dei potenti no, non ce li metto nel mio presepe: volti sicuri, forti, vincenti; quelli comunque non si metterebbero in cammino, ricordate Erode? So bene che in questo mondo sembra che comandino i potenti, che Erode siede sempre su un trono di morti, che la vita è avventura e pericoli, di strade e di esilio, ma so anche che dietro a tutto questo c’è un filo rosso il cui capo è saldo nelle mani di Dio. So che il denaro sembra comandare, ma so anche che non è il denaro il senso delle cose.

Compongo così il mio presepe.

Ci metto quel volto che ha fame, Caterina, una mamma che ha perso il lavoro. Porta in braccio e per la mano i suoi figli da sfamare con i pacchi del banco alimentare, da mandare a scuola, vestire, in cammino verso quel bambino che piange per la fame, verso quell’altra mamma che deve dare da mangiare. Anche Dio viene come un bambino: un neonato non può far paura, si affida alle mani della madre, vive solo se qualcuno lo ama. Così le madri fanno vivere i propri figli, li nutrono di latte e di sogni, ma prima ancora di amore.

Ci metto, poi, il volto di chi ha sete, Steven, ugandese di sette anni che ogni giorno fa cinque chilometri a piedi: la strada dal suo villaggio al pozzo più vicino, portando taniche gialle sulle strade di polvere rossa, che l’acqua, quella buona, l’hanno presa gli europei per annaffiare le loro piante di the. In cammino anche qui con le sue taniche, nel mio presepe, verso quel Bambino che sarà acqua viva, che smorza la sua sete con le sue lacrime.

Ci metto quel volto nudo di Marja, che passeggia di notte, piena di timore, sui viali di Bologna come un tempo passeggiava spensierata per le strade di Tirana. Nuda, per vendere un corpo che non le appartiene più, schiava; nuda della propria dignità di donna e di madre, della propria libertà. Nuda per il piacere di uomini, nuda per il guadagno di altri uomini. Nel mio presepe sta in una strada migliore, che la porta verso una casa, a ritrovare sogni e speranze nella famiglia che non ha, dove l’uomo è un padre giusto, un falegname, un uomo nuovo che conosce l’amore e la dolcezza. E, soprattutto, il rispetto della dignità, e la tenerezza di una madre che le restituisce il senso della sua vita.

Metto nel mio presepe, ancora, il volto forestiero. Non vi scandalizzate, il mio forestiero si chiama Marco, è italiano. Emigrato a Londra perché il laboratorio in cui faceva ricerca non lo pagava più. Paga un affitto sempre troppo caro e il prezzo di una nostalgia scavata nel cuore. Non c’è una mattina in cui non scopra l’amarezza di svegliarsi lontano dalla sua casa, dai suoi amici, dai suoi fratelli, dalla sua ragazza. Come ogni altro straniero qui in Italia! Porta verso quella grotta la sua vecchia borsa piena di sogni e un curriculum non letto.

Sulla sua carrozzina, nel mio presepe, ci metto il volto di Maurizio. Ma ci vuole qualcuno che spinga la carrozzina, così scelgo il volto di Francesco, un ragazzo sieropositivo. Maurizio che ha accettato con dignità la sua malattia, Francesco che non si rassegna e vuole riempire di senso il tempo che gli è dato. Si spingono a vicenda verso quella grotta, l’uno con le braccia, l’altro con l’anima. Attraversano dolori e giudizi, paure ed esclusioni, superano insieme barriere architettoniche e pregiudizi per raggiungere il tenero sguardo di quel bambino, per abbandonarsi tra le sue piccole braccia, per specchiare i loro mali nella sua santità. Perché c’è qualcosa di Dio in ogni uomo, c’è santità in ogni vita.

Ci metto, infine, anche il volto di Giovanni, sedici anni e una condanna di omicidio sulle spalle. Giovanni che si porta appresso il suo dolore tra carceri e tribunali, che un giorno ha voluto liberare la sua famiglia dal mostro che la divorava, Giovanni che sa che deve pagare per questo. Giovanni che ha attraversato l’inferno e ora è solo con il suo passato e fantasmi troppo ingombranti da far tacere. Che cerca in quella grotta una via per sentirsi ancora libero, ancora vivo. Che cerca da quel bambino il perdono che nessun altro può dargli.

Guardo il mio presepe ora, cerco nel cuore delle cose, in fondo alla speranza. Fisso gli abissi del cielo e poi gli abissi del cuore. Mi accorgo che manca ancora qualcosa: ci metto anche il volto di angeli. Non va bene un presepe senza angeli: Dio non invia soldati, ma angeli dentro l’umile via del sogno, e non per risparmiare ai suoi il deserto o l’esilio, ma perché non si arrendano in mezzo al deserto, non si rassegnino all’esilio.

E allora metto angeli veri, donne e uomini benedetti dal Padre nostro, quelli che danno da mangiare, da bere, che visitano, lottano per i diritti e la dignità. Quelli che amano. I volontari che curano le mense, quelli che costruiscono pozzi e legami d’amicizia, quelli che si prendono cura, che portano coperte e pane sulle strade delle metropoli e sulle spiagge di Lampedusa, i medici che lasciano i loro poliambulatori nuovi di zecca per curare malati senza diritti e senza soldi in ospedali di guerra, quelli che amano la pace, che vivono con dignità, che sono fedeli alla propria vocazione nella storia, quelli che non scendono a compromessi, che non si vendono per nessun piatto di lenticchie. Quelli che ci sono sempre. Gli angeli!

Eccolo il mio presepe: si è popolato. Pensavo non ci fosse nessuno e invece lo scopro pieno di un’umanità bella, di donne, uomini e bambini senza risposte e senza certezze, di un’umanità provata ma viva che non può fare altro che abbandonarsi al mistero, cercare la Verità e la Vita nella luce di una stalla, tenue ma molto più luminosa di ogni illusione umana, e scaldarsi al fuoco della Speranza. Ed è su quella luce che, in questo Natale, fisso il mio cuore. E da lì, riparto!”

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