La metafora della vita come cammino è utilizzata con ampiezza sin dalle grandi opere dell’antichità, si pensi all’Odissea omerica. Tuttavia per la Bibbia si tratta di un vero e proprio filo rosso che percorre la storia del popolo di Israele sin dalle sue origini caratterizzando la stessa vicenda di Gesù, con la chiamata alla sequela.
La Chiesa nascente farà sua la rappresentazione della vita del credente come cammino, fino alla splendida lettura che ne offre il libro dell’Apocalis se, cammino che si conclude solo con la pienezza di vita con Dio nella Gerusalemme celeste.
La condizione del credente come “pellegrino”, messo in movimento dalla chiamata di Dio, per camminare fidandosi unicamente della sua promessa nonostante le apparenze contrarie e le delusioni, caratterizza la prima chiamata biblica, quella del padre Abramo.
Nella sua vicenda è riassunto il significato della vita del credente come risposta ad una chiamata come verrà ribadito nell’invito di Gesù “se vuoi, seguimi”.
Sin dall’inizio l’invito a camminare viene connotato come “uscita”: Abramo è chiamato ad uscire da un modo di vivere la vita, dalla fede nelle divinità dei luoghi di origine, a lasciare abitudini e persino legami con il proprio contesto di origine. L’invito ad uscire da modi di concepire la stessa divinità e di vivere il culto religioso. La sua vicenda diventa così esemplare non solo per il popolo eletto, ma per il credente cristiano, come dirà San Paolo indicandolo come “nostro padre nella fede” (Rom 3; Gal4) e come viene onorato dai fedeli dell’Islam. Questa dimensione, a cui la lettera pastorale fa riferimento, alla luce della Sacra Scrittura offre già in se stessa la materia di una riflessione sul modo di vivere la fede nella chiesa nel nostro tempo come viene esplicitato nella lettera pastorale “Cammina cantando”.
L’invito ad uscire, proprio per il carattere esemplare della fede di Abramo, rimane costitutivo dell’autentica fede cristiana, chiamando la comunità credente ad una riflessione che non si ferma alla ricostruzione della vicenda dei Padri, ma che legge quelle vicende alla luce della vita nel suo concreto contesto. In quanto comunità di credenti nel contesto di una grande città come Napoli, l’invito diventa, come la lettera pastorale suggerisce, il richiamo a riconsiderare criticamente gli atteggiamenti religiosi a cui siamo legati più di quanto non si pensi. Il riferimento dell’Arcivescovo ad una pietà popolare che chiede ai santi la “garanzia di protezione in cambio della fedeltà” così simile a certi linguaggi di associazioni camorristiche chiede effettivamente una riflessione critica su come venga spesso vissuto, ancora oggi, un atteggiamento religioso molto distante dalla chiamata di Dio rivolta ad Abramo, la richiesta di una fede-fiducia nella sua parola nonostante le prove e le apparenti sconfitte della vita.
L’invito alla ripresa gioiosa di un cammino guidato dalla Parola è la fondamentale metafora dell’intera vicenda esodica, narrata a partire dal libro dell’Esodo e fino al Deuteronomio, fino alla conclusione cioè del Pentateuco.
Proprio la vicenda del “popolo in cammino”, Israele prima e la Chiesa poi, rappresenta il paradigma per la continua purificazione dell’inevitabile tendenza a fermarsi, ad indugiare, a fomentare nostalgie per il ritorno nella casa di schiavitù di cui si ricorda soprattutto la disponibilità del cibo così scarso nel deserto. La liberazione, come insegna la storia del cammino di Israele nel deserto, ha un costo, il costo della libertà dei figli di Dio che hanno di fronte a sé, ancora solo oggetto di promessa, una terra ed un futuro di libertà che rende sopportabile anche il cammino nel deserto. La tendenza alla mormorazione, così bene espressa in tante pagine dell’Esodo, non dovrà scoraggiare le guide né quella parte di popolo che legge in esse la tendenza ad accontentarsi della condizione di schiavi pur di non dover sopportare le prove. Quello esodico è un paradigma che può ben alimentare la riflessione su molti aspetti che riguardano la chiesa di sempre così come la porzione di “popolo di Dio” presente nella nostra città.
Sul tema del cammino si sviluppano le narrazioni evangeliche che trasmettono la testimonianza di fede degli evangelisti e delle loro comunità lungo l’itinerario che porterà Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, fino al Golgota e alla risurrezione.
L’evangelista Luca, in particolare, sviluppa la narrazione del cammino di Gesù insistendo sulla felice metafora della strada (Lc 9,51-19,48). È lungo la strada che Gesù, nelle più diverse situazioni che si presenteranno al gruppo degli apostoli, darà gli insegnamenti fondamentali per il “cammino” cristiano, catechesi permanente per chi si incammina sulla strada di una sequela autentica. Gesù risponde al dottore della Legge su chi sia il suo prossimo narrando la parabola del buon samaritano, colui che solo si prese cura dell’uomo ferito ed emarginato sul ciglio della strada (Lc 10, 30-37); è “lungo la strada”, mentre si è in cammino, che bisogna agire per preparare il proprio futuro (Lc 12,58-59); è la strada che può condurre sino al sacrificio di sé, accolto come prezzo per l’annuncio profetico del Regno (Lc 13,33); è sul bordo della strada che si incontra chi chiede di recuperare la vista (Lc 18,35-43). La rassegna evangelica potrebbe continuare ma emerge con sufficiente chiarezza che il luogo dell’annuncio evangelico che avviene nel farsi prossimo chiede di uscire lungo la strada, di non fermarsi ai luoghi deputati al culto, di inoltrarsi per la strada, laddove si incontra l’umanità nelle proprie concrete e spesso difficili situazioni di vita che talvolta si preferisce non vedere.
L’insegnamento di Gesù si colloca nell’alveo della rivoluzione religiosa operata in particolare dai profeti di Israele. È a loro che si deve la formazione di una nuova e rivoluzionaria coscienza religiosa consistente nel passaggio dalla religiosità intesa come culto da tributare a divinità di cui conquistare la simpatia e la protezione o di cui arginare la pericolosità per la vita umana.
È alla fede dei profeti che dobbiamo un monoteismo che lascia alle spalle le rappresentazioni degli olimpi abitati dagli déi dalle fattezze umane, per trasmettere la fede in un Dio che chiede all’uomo di prendersi cura della giustizia, del proprio simile.
Egli stesso, il Dio di Israele nella testimonianza di Profeti come Amos (5,21-27), Michea (3,1-4), Isaia (1,10-20) è colui che si prende cura di coloro ai quali non vengono riconosciuti diritti, abbandonati al loro destino. È partecipando alla vicinanza di Dio agli ultimi nella giustizia e nella solidarietà che si rende il vero culto, come ricordano i rimproveri di Geremia contro un popolo che ha smarrito la “strada” indicata dal Signore (Ger 7,21-28). Il richiamo della lettera pastorale alle spettacolarizzazioni esteriori, ai culti che soddisfano il più superficiale bisogno religioso, senza testimoniare e chiedere un autentico cambiamento nel modo di partecipare alla vita concreta degli uomini e delle donne che incontriamo lungo la strada, trova nel fondamentale insegnamento profetico un riferimento particolarmente significativo: i profeti non si limitarono a riferire le parole del Signore, a insegnare per professione ma attraverso il coinvolgimento personale e spesso mettendo in pericolo la propria vita.
L’impegno etico intrinseco alla fede di Israele si riflette fino ai racconti di creazione, laddove si parla della dignità dell’uomo fatto a immagine e somiglianza chiamato alla responsabilità nei confronti del creato, di se stesso e del suo prossimo. Il ripetuto richiamo dell’Arcivescovo nella lettera pastorale alla responsabilità di cui il cristiano deve sentirsi pienamente investito non solo per la propria identità di cittadino, ma per le profonde motivazioni di fede, trova proprio nelle prime pagine dalla Bibbia (Gn 1-4) un fondamento solido da riprendere continuamente per contribuire alla trasformazione della convivenza umana e dei destini della nostra città. In particolare il riferimento ad un’ancora scarsa sensibilità e cura per il bene comune, in particolare la non sufficiente attenzione dei credenti al peccato contro i beni del creato, di così grave attualità proprio nella nostra regione, meritano una riflessione ed un’azione urgente e diffusa a livello pastorale che non si riduca a sporadiche iniziative settoriali. Analogamente, a partire dagli insegnamenti biblici a cui si è fatto riferimento, si deve dire per la coscienza politica intorno alle gravi questioni relative all’economia in un contesto, come quello meridionale e napoletano che è ormai, e in misura crescente, terra di emigrazione.
La lettera potrebbe essere commentata in ogni suo passaggio con estesi riferimenti a passi biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma un particolare rilievo assume, sotto molti aspetti, il richiamo al compito educativo a cui la chiesa tra le altre agenzie educative (famiglia, scuola), con il suo ruolo e i suoi contenuti specifici, deve assolvere. In molti documenti del Magistero, a partire dalla Dei Verbum, la costituzione sulla rivelazione del Concilio Vaticano II e fino alla lettera apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI, si fa riferimento al ruolo primario della formazione biblica.
Formare un laicato adulto, offrire contenuti di riflessione matura al popolo cristiano, non può più essere percepito come un impegno particolare, di qualche gruppo, o di qualche cristiano particolarmente interessato. In questo senso anche la chiesa napoletana è chiamata a camminare. È la vera maniera, ci pare, per richiamare il popolo cristiano alla sua condizione di popolo di Dio, da scuotere rispetto ad una frequentazione di chiese e sacramenti come asilo d’infanzia. La predilezione di una pastorale sostanzialmente sacramentale, come pure il recupero di espressioni della pietà popolare che si vorrebbero evangelizzare (con risultati spesso dubbi), non può distrarre dal grande compito affidato alla chiesa e raccolto nelle intenzioni dalla chiesa di Napoli sin dal suo trentesimo sinodo, circa la centralità da assegnare alla formazione biblica; l’educazione alla lettura e meditazione delle Sacre Scritture non può essere confinata in esperienze particolari di cristiani d’eccezione.
Non è solo questione di organizzare nuovi percorsi formativi, che pure esistono a diversi livelli (dalla Facoltà Teologica, agli Istituti di Scienze Religiose, ai centri pastorali decanali e parrocchiali).
Il bisogno e la disponibilità a cercare l’incontro con il Signore attraverso la Sacra Scrittura, a vivere effettivamente il valore “sacramentale” di una Parola che precede le nostre parole, che le fonda e le giudica, non avverrà se non si avrà il coraggio di imprimere dei cambiamenti reali alla nostra prassi pastorale.
Proprio la lettera apostolica Verbum Domini accenna al tema della sacramentalità della Parola che non può essere ridotto al suo pur fondamentale ruolo nell’ambio della liturgia eucaristica. Va segnalato, in positivo, lo sviluppo di esperienze di Lectio biblica in alcune parrocchie, ma non basta.
Non è forse il momento, stimolati da quanto la lettera pastorale dice, di ritornare ad audaci proposte che chiedevano di introdurre in ogni parrocchia una giornata settimanale dedicata esclusivamente alla Parola? Non bisogna correre il rischio di ridurre il compito educativo che la chiesa napoletana ed ogni singolo decanato e parrocchia deve assolvere, alla creazione di nuove scuole o nuovi centri, quanto piuttosto l’attivazione, con intelligenza e coraggio profetico, di quanto manca perché il famoso sesto capitolo della Dei Verbum non resti disatteso nella sostanza.
L’auspicio è che la chiesa napoletana, riprendendo a “camminare cantando” con Maria, come ci invita a fare la lettera pastorale in conclusione, impari da Lei ad ascoltare veramente , a meditare nel cuore, per portare la nostra gente, al contatto personale con la Parola eterna del Padre.Gaetano Castello
Preside della Pontificia Facoltà Teologica
dell’Italia Meridionale