Lumen fidei

Lettera Enciclica di Papa Francesco

Il 5 luglio 2013 è stata presentata la prima enciclica di Papa Francesco, Lumen fidei (i numeri tra parentesi nel testo indicano i paragrafi dell’enciclica, cui si rimanda anche per i riferimenti agli autori citati dall’enciclica stessa) dedicata alla fede, formalmente datata 29 giugno 2013. Il 13 giugno il Pontefice l’aveva presentata ai membri del Consiglio ordinario della Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi come un’«enciclica a quattro mani», preparata insieme a Benedetto XVI come segno speciale della continuità tra i due pontificati. Nel testo, Francesco ricorda che il suo predecessore «aveva quasi completato» (7) l’enciclica sulla fede, aggiungendo: «Assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi» (ibid.).
Naturalmente, l’enciclica è firmata dal solo Papa Francesco ed è un atto del suo Magistero, anche se non è difficile riconoscere le parti scritte dal Pontefice emerito. Ma del resto – per quanto la situazione di questa enciclica sia particolare – sempre i Pontefici regnanti si sono avvalsi di parti scritte da altri: è la loro firma sul testo che lo trasforma in Magistero.
Da questa singolare collaborazione è nato un grande testo di novantasei pagine, che ha un duplice andamento, un piano orizzontale e un piano verticale. Ci sono «due assi su cui la fede percorre il suo cammino» (44): l’asse della storia e «l’asse che conduce dal mondo visibile verso l’invisibile»
(ibid.). A sua volta, questo secondo asse – verticale – può essere percepito in due modi: come luce, con gli occhi, o come parola, con l’udito.
Il primo asse, storico, è richiamato già nell’Introduzione (1-7), dove si afferma che la luce della fede ha fatto irruzione nella storia umana con Gesù Cristo. Il mondo pagano ormai stanco era «affamato di luce» (1), e aveva «sviluppato il culto al dio Sole, Sol invictus, invocato nel suo sorgere»
(ibid.). Tuttavia, «anche se il sole rinasceva ogni giorno, si capiva bene che era incapace di irradiare la sua luce sull’intera esistenza dell’uomo. Il sole, infatti, non illumina tutto il reale, il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce» (ibid.).
L’enciclica riporta le parole di san Giustino Martire (ca. 100-164): «Per la sua fede nel sole non si è mai visto nessuno pronto a morire» (ibid.). I cristiani, invece, trovarono in Cristo «il vero sole»(ibid.), i cui raggi – secondo l’espressione di Clemente Alessandrino (ca. 150-215) – «donano la vita» (ibid.). Certamente, la storia comprende anche «l’epoca moderna»
(2), che ha preteso di liquidare la fede come «una luce illusoria» (ibid.). Il Papa cita il filosofo Friederic Nietzsche (1844-1900), che in una lettera incitava la sorella Elisabeth (1846-1935) ad abbandonare la fede, sostenendo che è solo «un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani»
(ibid.). La modernità ha associato la fede non alla luce, ma al buio, o l’ha ridotta al più a «luce soggettiva» (3), semplice emozione o sentimento.
Ma, senza la luce della fede, «tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione» (ibid.). A un mondo moderno che riesce solo più a vedere«piccole luci che illuminano il breve istante»
(ibid.), mai la «luce grande» (ibid.), la Chiesa ha cercato di riproporre la vera luce, la fede. Lo ha fatto con il Concilio Ecumenico Vaticano II, che – secondo le parole del venerabile Paolo VI (1897 1978) nell’Udienza generale dell’8 marzo 1967, già più volte richiamate da Benedetto XVI – non ha dedicato un documento specifico alla fede, ma in realtà «parla ad ogni pagina» (6) della «vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa» (ibid.). E lo fa ora con l’Anno della fede.
L’asse storico della fede è ancora al centro del primo capitolo (8-22): «se vogliamo capire che cosa è la fede, dobbiamo raccontare il suo percorso» (8). Il racconto inizia con Abramo, nostro padre nella fede, che per tutta la vita fa memoria della promessa di Dio. Ma questa memoria «non fissa nel passato ma, essendo memoria di una promessa, diventa capace di aprire al futuro […]. Si vede così come la fede, in quanto memoria del futuro, memoria futuri, sia strettamente legata alla speranza» (9). La parola ebraica ’emûnah, usata per Abramo, così come il latino fides, allude a una duplice fedeltà: fedeltà di Dio al patto con gli uomini, fede dell’uomo che si affida a Dio, riconoscendolo non come un estraneo ma come la sorgente profonda del proprio essere, «Colui che è origine di tutto e che sostiene tutto» (11). La luce della fede continua poi a scendere nella storia d’Israele.
«L’architettura gotica l’ha espresso molto bene: nelle grandi Cattedrali la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra» (12). Tuttavia, già questa storia – nell’episodio del vitello d’oro – ci mostra l’insidia permanente dell’«opposto della fede» (13), l’idolatria, dove «l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà» (ibid.), e l’uomo sostituisce a Dio la «molteplicità dei suoi desideri» (ibid.). «Per questo l’idolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro» (ibid.), da cui solo Dio libera.
Questa liberazione si dà nella storia attraverso una mediazione, che comincia a emergere con Mosè. Il filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau (1712 1778), figura dell’orgoglioso uomo moderno chiuso in «una concezione individualista e limitata della conoscenza» (14), non riusciva a capire la necessità di una mediazione, perché mai «Dio sia andato da Mosè per parlare a Jean-Jacques Rousseau» (ibid.). Rousseau però non vede che «in tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale» (18). E «abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio» (ibid.).
La necessità di una mediazione emerge in modo incontrovertibile nella morte e resurrezione di Gesù Cristo, l’unico capace di «entrare nella morte per salvarci»
(16). Questo ingresso nella morte è drammatico, e l’enciclica menziona il principe Myskin de L’idiota del romanziere russo Fedor Dostoevskij (1821 1881) il quale, di fronte alla crudezza del «Cristo nella tomba» dipinto da Hans Holbein il Giovane (1497-1543) esclama:«Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno» (16). Ma in realtà «è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante» (ibid.), confermata dalla Risurrezione come «pienamente affidabile» (17).
Questa luce cambia tutto. Ci aiuta a capire che solo Dio è degno di fede. La polemica di san Paolo contro i farisei denuncia chi «anche quando compie opere buone, mette al centro se stesso e non riconosce che l’origine della bontà è Dio» (19).
Ma «quando l’uomo pensa che allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce» (ibid.). Avvicinarsi a Dio e vedere il mondo con lo sguardo del Signore significa, dopo la Pentecoste, vivere nella Chiesa, corpo di Cristo.
«L’immagine del corpo non vuole ridurre i credenti a semplice parte di un tutto anonimo, a mero elemento di un grande ingranaggio, ma sottolinea piuttosto l’unione vitale di Cristo con i credenti e di tutti i credenti tra loro» (22). «La fede ha una forma necessariamente ecclesiale» (ibid.). «Si capisce allora perché fuori da questo corpo, da questa unità della Chiesa in Cristo, da questa Chiesa che – secondo le parole di Romano Guardini [teologo tedesco di origine italiana, 1885-1968] – “è la portatrice storica dello sguardo plenario di Cristo sul mondo”, la fede perde la sua “misura”, non trova più il suo equilibrio, lo spazio necessario per sorreggersi» (ibid.).
Il secondo capitolo dell’enciclica (23 36) descrive il secondo asse, verticale, che porta dalla Terra al Cielo, attraverso due coppie di elementi che non vanno intesi come contrapposti ma come complementari: conoscenza e amore, visione e ascolto. Nel brano di Isaia 7,9 il profeta consiglia al re Acaz, che cerca la sicurezza in un’incerta alleanza con gli Assiri, di affidarsi solo alla fede in Dio.
L’originale ebraico andrebbe tradotto: «Se non crederete, non resterete saldi», ma la versione greca dei Settanta porta: «Se non crederete, non comprenderete». Qui qualcuno che non ama l’incontro tra cristianesimo e cultura greca – secondo un’avversione progressista alla Grecia denunciata da Benedetto XVI nel celebre discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006 – sostiene che «la versione greca della Bibbia, nel tradurre “essere saldo” con “comprendere”, abbia operato un cambiamento profondo del testo, passando dalla nozione biblica di affidamento a Dio a quella greca della comprensione.
Tuttavia, questa traduzione, che accettava certamente il dialogo con la cultura ellenistica, non è estranea alla dinamica profonda del testo ebraico» (23). Non si tratta di mera filologia, anzi siamo qui alla chiave di volta di tutta l’enciclica: la fede è fede in un contenuto di cui affermiamo con certezza che è la verità. La fede non è un sentimento, «un fatto privato, un’opinione soggettiva» (22). È l’adesione alla verità trasmessa nella storia dalla Chiesa. «La fede, senza verità, non salva, non rende sicuri i nostri passi. Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità, qualcosa che ci accontenta solo nella misura in cui vogliamo illuderci.
Oppure si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda, ma resta soggetto al mutarsi del nostro animo, alla variabilità dei tempi, incapace di sorreggere un cammino costante nella vita. Se la fede fosse così, il re Acaz avrebbe ragione a non giocare la sua vita e la sicurezza del suo regno su di un’emozione. Ma proprio per il suo nesso in trinseco con la verità, la fede è capace di offrire una luce nuova, superiore ai calcoli del re, perché essa vede più lontano, perché comprende l’agire di Dio» (ibid.).
«Richiamare la connessione della fede con la verità è oggi più che mai necessario, proprio per la crisi di verità in cui viviamo» (25), dominati da un relativismo «in cui la domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più» (ibid.). Il relativismo insinua che credere in una verità assoluta ha portato ai grandi e sanguinari totalitarismi del XX secolo. A questa insidiosa obiezione il cristianesimo risponde che conoscenza della verità e amore non sono mai disgiunti e s’incontrano nella fede: «Con il cuore si crede», afferma san Paolo (Rm10,10). L’enciclica cita e rovescia la tesi del filosofo Ludwig Wittgenstein (1889-1951) secondo cui la fede, come l’amore, è un’esperienza soggettiva «improponibile come verità valida per tutti» (27). Il Papa non risponde a Wittgenstein che è sbagliata la sua analisi della fede, ma che il filosofo sbaglia l’analisi dell’amore, cadendo nel pregiudizio tipicamente moderno il quale sostiene che «la questione dell’amore non abbia a che fare con il vero. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità»
(ibid.). Ma «davvero questa è una descrizione adeguata dell’amore? In realtà, l’amore non si può ridurre a un sentimento che va e viene. Esso tocca, sì, la nostra affettività» (ibid.), ma è vero amore che permane nel tempo solo quando «è fondato sulla verità» (ibid.). Wittgenstein non ha torto quando paragona la fede all’amore, ma sbaglia a pensare che l’amore sia solo sentimento. «Amore e verità non si possono separare» (ibid.), «amor ipse notitia est», «l’amore stesso è una conoscenza» (ibid.), come afferma san Gregorio Magno (540-604). E proprio in quanto avanza in stretta unità con l’amore, la conoscenza della verità non genera nella storia violenza ma liberazione.
Per la stessa errata mentalità ostile alla cultura greca l’ascolto della parola di Dio, tipico della mentalità biblica e che «aiuta a raffigurare bene il nesso tra conoscenza e amore»(29), è stato «contrapposto alla visione, che sarebbe propria della cultura greca» (ibid.). L’immagine greca della conoscenza come luce è stata criticata perché «se da una parte offre la contemplazione del tutto, cui l’uomo ha sempre aspirato, dall’altra non sembra lasciar spazio alla libertà, perché discende dal cielo e arriva direttamente all’occhio, senza chiedere che l’occhio risponda. Essa, inoltre, sembrerebbe invitare a una contemplazione statica, separata dal tempo concreto in cui l’uomo gode e soffre. Secondo questa concezione, l’approccio biblico alla conoscenza si opporrebbe a quello greco» (ibid.). Ma non è così: «questa pretesa opposizione non corrisponde al dato biblico» (ibid.), il quale propone invece «una sintesi tra l’unire e il vedere» (30) che culmina nel Nuovo Testamento e in particolare nel Vangelo di Giovanni. Questa sintesi, chiamata da san Tommaso d’Aquino (1225-1274) «oculata fides» – precisamente«fede che vede!» (ibid.) – è decisiva, perché «l’incontro del messaggio evangelico con il pensiero filosofico del mondo antico» fonda il rapporto tra fede e ragione, cruciale per la vita e la cultura come il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) ha mostrato nell’enciclica, richiamata qui da Papa Francesco, Fides et ratio. Questo incontro emerge nella biografia di sant’Agostino (354-430), cui la «filosofia greca della luce» (33), nella versione neoplatonica, ha consentito di superare il manicheismo e l’idea che il bene e il male non avessero «contorni chiari» (ibid.).
La sua conversione è poi maturata nell’ascolto del Dio della Bibbia. «E tuttavia, questo incontro con il Dio della Parola non ha portato sant’Agostino a rifiutare la luce e la visione» (ibid.). Solo integrando visione e ascolto, luce e suono, arti figurative e musica riusciamo a fare incontrare fede e ragione, a mostrare anche ai non cristiani e ai non credenti come sono illuminati «senza saperlo» (35), come già i Magi, dalla luce di Cristo ogni volta che cercano sinceramente e trovano una verità, e a costruire una teologia come scienza guidata dalla ragione che tuttavia resta «al servizio della fede dei cristiani» (36). Come tale, l’autentica teologia non considera «il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, co stitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità» (ibid.).
I capitoli terzo (37-49) e quarto (50 57) dell’enciclica mostrano come la fede – lungo il duplice asse della storia e della trascendenza, quest’ultima articolata nelle coppie verità-amore e visioneascolto – si trasmetta nella storia e illumini tutti gli ambiti della vita personale e sociale. «Come essere sicuri di attingere al “vero Gesù” attraverso i secoli?» (38).
Un lettore isolato della Bibbia non avrebbe nessuna certezza: «non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un’epoca così distante da me» (ibid.). Per questo, il Signore ha voluto che il deposito della fede fosse «conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa» (ibid.). In verità, «è impossibile credere da soli» (39): la fede o si dà nella Chiesa, o non si dà. E la Chiesa trasmette la fede soprattutto attraverso quattro elementi: i sacramenti – in particolare il battesimo, di cui l’enciclica difende il conferimento ai bambini non ancora in grado di comprenderne il senso, un gesto che mostra precisamente come la fede non è del singolo ma della Chiesa, è sempre «inserita in un “noi” comune» (43) e l’eucarestia -, il Credo, il Decalogo – che «non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal deserto dell'”io” autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia per portare la sua misericordia»
(46) – e la preghiera, soprattutto il Padre nostro. Si riconosce qui la struttura del Catechismo della Chiesa Cattolica, che l’enciclica definisce «strumento fondamentale» (ibid.) per identificare con certezza il contenuto della fede, e nello stesso tempo preservare «la sua purezza e integrità» (48): «perché tutti gli articoli di fede sono collegati in unità, negare uno di essi, anche di quelli che sem brerebbero meno importanti, equivale a danneggiare il tutto» (ibid.). E la purezza e integrità della fede sono garantite dal Magistero, che assicura «la continuità della memoria della Chiesa» (49) ed è certamente «affidabile» (ibid.).
La fede «non si configura solo come un cammino» (50): costruisce anche una nuova città, fondata anzitutto sulla famiglia, che nasce – verità che è quanto mai opportuno richiamare oggi – «dall’accettazione della bontà della differenza sessuale» (52) tra uomo e donna, voluta da Dio, e fiorisce nella promessa di un amore «per sempre» (ibid.), che ultimamente solo la fede rende davvero credibile e possibile. In famiglia poi i giovani cominciano a scoprire che «la fede non è un rifugio per gente senza coraggio» (53) ma l’unica luce che trasforma la società. Le ideologie rivoluzionarie hanno «cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla loro uguaglianza» (54). Ma hanno fallito: «questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere»
(ibid.). Senza il fondamento, senza la fede, torniamo ai pagani come Celso (II sec.) che, in polemica con i cristiani, considerava «un’illusione e un inganno» (ibid.) pensare che l’uomo avesse una dignità superiore agli animali, e scriveva:«Se guardiamo la terra dall’alto del cielo, che differenza offrirebbero le nostre attività e quelle delle formiche e delle api?» (ibid.). Se manca la fede, l’uomo «perde il suo posto nell’universo, si smarrisce nella natura, rinunciando alla propria responsabilità morale, oppure pretende di essere arbitro assoluto, attribuendosi un potere di mani polazione senza limiti» (ibid.). A Celso l’enciclica risponde con le parole dei Cori della Rocca del poeta Thomas Stearns Eliot (1888-1965), secondo cui senza la fede la civiltà sprofonda nella barbarie:«Avete forse bisogno che vi si dica che perfino quei modesti successi / che vi permettono di essere fieri di una società educata / difficilmente sopravvivranno alla fede a cui devono il loro significato?» (55). Prendere sul serio queste parole, commenta Papa Francesco, significa avere il coraggio di dire che Dio dev’essere riconosciuto anche nella vita pubblica e sociale.
«Saremo forse noi a vergognarci di chiamare Dio il nostro Dio? Saremo noi a non confessarlo come tale nella nostra vita pubblica, a non proporre la grandezza della vita comune che Egli rende possibile?» (ibid.). Dobbiamo tornare al coraggio di proclamare che solo «la fede illumina il vivere sociale» (ibid.): «se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, si affievolirà la fiducia tra di noi, ci terremo uniti soltanto per paura» (ibid.).
Viviamo in un tempo di grandi sofferenze. Occorre spiegare con pazienza che solo la fede porta la speranza a chi soffre e alimenta la carità. «Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che “frammentano” il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza» (57). Grazie a Dio, non siamo soli. La conclusione dell’enciclica (58-59) ci ricorda che possiamo contare sulla materna presenza di «Colei che ha creduto» (Lc 1,45), la Vergine Maria, di cui san Giustino Martire afferma che, accettando l’annuncio dell’Angelo, «ha concepito “fede e gioia”» (58). «Chi crede non è mai solo» (58). La fede e la gioia sono con lui. Sono date gratuitamente, anche nei momenti e nei tempi più difficili:basta accettarle riconoscendo nella luce della fede la luce stessa di Dio.

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