Quando ero un semplice ragazzo della provincia casertana vedevo Napoli come una chimera e i napoletani come cittadini privilegiati e mai avrei immaginato che un giorno sarei diventato cittadino onorario di Napoli. Ma vi assicuro che già allora portavo nel cuore e sentivo di amare questa città, perché grande, bella, importante, accogliente e impareggiabile. Un amore che ho continuato a vivere nel tempo, in luoghi diversi e con sentimenti via via sempre più maturi e motivati, che hanno assunto poi forza dirompente quando, nel 2006, per volontà di Dio e su mandato del Santo Padre Benedetto XVI sono diventato Vescovo di questa splendida città e diocesi.
Al di là di questa esternazione di sentimenti, che pure hanno il loro valore, però, voglio dire che la cittadinanza conferita al Vescovo, per quanto fatta ad personam, ha un inequivocabile significato plurale, nel senso che un Pastore di anime non può mai essere dissociato dalla sua Chiesa e dalla sua gente. D’altra parte, sono a Napoli per svolgere il mio ministero, sacerdotale e pastorale, di servizio alla Diocesi e a questa meravigliosa città. Una Città da rispettare e da amare, a dispetto e a ristoro delle tante offese e dei tanti tradimenti subiti, delle tante violenze e delle tante ingiustizie consumate negli anni e nei secoli ai suoi danni.
È quello che con la mia Chiesa e con i miei sacerdoti vado facendo, con disinteresse e determinazione, per difenderne la storia, la dignità e i diritti, per favorirne il riscatto e il prestigio, senza alcuna velleità ma invocando e cercando la comunione delle risorse umane e materiali, la sinergia del lavoro e degli sforzi. E lo speciale “Giubileo per Napoli” è stato la cartina di tornasole non solo per dare testimonianza di un impegno pastorale verso il popolo di Dio, ma anche per verificare le volontà e le potenzialità e, quindi, le infinite certezze ed eccellenze che ci sono e che rendono concreta la speranza: da tante persone e personalità, da tanti pezzi della società, da ogni angolo della comunità diocesana è venuto un riscontro esaltante e incoraggiante. Tutti, in maniera diversa ma convinta, hanno gridato il loro «Eccomi!».
Il Giubileo, insomma, è stato un «no» al cedimento, quando tutto sembrava congiurare per fare della rassegnazione gli emblemi di una Napoli piegata e costretta alla resa. L’opera del Giubileo è ora il cantiere ancora aperto di una comunità che, al termine del lungo e intenso pellegrinaggio, non è più la stessa: perché, innanzitutto, ha ripreso coraggio ed è andata a riprendersi, nelle sue stesse strade che ha percorso tratto per tratto, una speranza smarrita. Ora tutti abbiamo un debito di verità, di autenticità, voglio dire di identità e di appartenenza nei confronti di una comunità che, nel tempo, ha pagato il prezzo più alto proprio dal versante delle infedeltà, delle inadempienze, del disimpegno e, in genere, di una cura colpevolmente disattenta delle sue enormi risorse.
Napoli è da lungo tempo bersaglio di molti oltraggi, il più grave dei quali e la criminalità organizzata che rappresenta ancora un tormento vivo nelle sue carni.
La violenza camorristica, o il «sistema», secondo un sinistro neologismo, è il drappo nero che luttuosamente sventola su rovine e sconfitte; su tutto ciò che è da rimuovere come un cumulo di macerie che ingombra il futuro della città. Contro questo bubbone non ci stancheremo di lottare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, con i quali vogliamo issare, a mani e cuori uniti, le bandiere della «nuova speranza» di Napoli. Vogliamo scioglierle al soffio di un vento tanto forte e rigoglioso da provocare la visione di quel cielo di una «nuova Pentecoste» che Benedetto XVI, con il suo splendido messaggio a conclusione del nostro Giubileo, ha posto come amorevole manto su un nuovo inizio, nel segno della fiducia e del coraggio.
Una sana laicità per un clima di proficua collaborazione. Con questo spirito, mi piace parlare di «cieli nuovi», di una sana laicità che lascia spazio a forme possibili di collaborazione che impegnano, sugli stessi fronti, cattolici e non cattolici, credenti e non credenti, esponenti di altri credi e di altre religioni. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di sentirci ed essere comunità, corpo sociale capace di riconoscersi e condividere disagi e aspettative, progetti e risorse. Quando occorre, la condivisione può anche ammettere il segno meno: oggi, infatti, si è chiamati a condividere una crisi dalle dimensioni inusitate: economica e non solo, perche il disagio e il malessere che crea è troppo esteso per poterla addebitare solo ai conti che non tornano. Di questa crisi, almeno sul versante più strettamente finanziario, anche il Comune, forse in misura più incisiva e pervasiva rispetto alle altre istituzioni locali, subisce conseguenze di non poco conto, che vanno a incidere sulla qualità e la quantità dei servizi offerti ai cittadini e sul livello di una vita sociale immobilizzata sulla soglia di una precarietà preoccupante.
È del tutto evidente che in questa scala al ribasso, il peso maggiore – talvolta insopportabile – finisce per ricadere sulle spalle dei più deboli; di coloro che già sono in affanno e ai quali la crisi rischia di togliere il respiro. Abbiamo vissuto, con angoscia e sgomento, i drammi che hanno portato alcuni nostri fratelli a compiere gesti estremi e disperati.
Sta sotto gli occhi di tutti questa innaturale corsa a ritroso verso livelli di povertà e di disagio che risucchiano anche classi sociali un tempo attestate su parametri propri di un’esistenza quantomeno dignitosa. Nell’attenzione e nella lotta a queste nuove forme di povertà possiamo e dobbiamo fare fronte individuando spazi e modalità di interventi integrativi ma non suppletivi.Anche la nostra cara Napoli, purtroppo, porta i segni di questo nuovo sconvolgimento sociale. Sono segni forti che vengono, come un fiume in piena, da un mondo del lavoro al collasso in quasi tutti i suoi. principali comparti; da una rete commerciale resa sempre più fragile e smagliata dalle ridottissime possibilità di spesa dei singoli e delle famiglie;da una sempre più esile trama di servizi e di assistenza su cui, per prima, si è abbattuta la scure di tagli e di riduzioni. Non c’è serenità nelle famiglie, dove spesso il lavoro è un miraggio o un ricordo, o una risorsa sulla quale incombe l’incubo di poterlo perdere. Se tutto questo viene visto, poi, dal versante giovani, stando sulla porta ad essi oggi sbarrata del mondo del lavoro, appare assolutamente flebile e poco rassicurante la prospettiva di un futuro diverso e migliore.
Forse un futuro – e questa è una verità senza smentite – ma triste e solo di morte, ci sarà per una piccola parte di essi che sciaguratamente risponderà al richiamo ingannevole e falso che può venire dalle consorterie della violenza malavitosa, che nella crisi e nel disagio sociale trovano terreno fecondo per le loro colture criminali e culture di morte. Ma, attenzione!, un giovane che prende la strada del crimine è una sconfitta per tutti: per la comunità e per le istituzioni. Anche per la Chiesa, perché non vogliamo tirarci indietro rispetto a responsabilità che toccano tutti come peso grave e non più sopportabile.
Come ritornare a parlare alla città? È giunto, per tutti, il momento di dare un senso nuovo, e più profondo, anche al linguaggio: alle istituzioni non si può che chiedere di esprimersi attraverso l’alfabeto dei fatti concreti. La Chiesa di Napoli, che pure si è preoccupata di aggiornare il proprio linguaggio nel dialogo e nel rapporto con la Città, segue e apprezza lo sforzo di cambiamento del Sindaco e dell’amministrazione comunale. Ma bisogna insistere e fare di più.
Noi faremo la nostra parte e daremo la nostra collaborazione, con modalità e strumenti che di volta in volta verificheremo in ragione dei ruoli e delle competenze.
Potremo innescare nuove spinte alla condivisione e alla sinergia tra istituzioni ma anche tra settori della società. Questo è necessario e urgente, perche Napoli non può attendere oltre, e anzi da questo versante è possibile riprendere il filo di un collegamento più ampio e incisivo fra le varie realtà territoriali chiamate ognuna a fare la propria parte per assicurare alla Città il futuro che merita per i suoi natali, per la storia, per l’intelligenza e la genialità di molti, per le tante ricchezze umane e materiali, per la capacità di accogliere e integrarsi, espressa da sempre.
È sotto gli occhi di tutti il difficile momento che attraversano le rappresentanze istituzionali così come quelle più propriamente politiche, anche per una forma di diffusa disaffezione che tiene lontano i cittadini dalla cosa pubblica, a causa di gestioni troppo spesso dominate da clientelismi di ogni genere, scandali, dissipazioni di beni e risorse che hanno ostacolato il bene comune. Ancora assistiamo a casi di malcostume largamente radicato, che quasi induce a una sorta di assuefazione e a un «così fan tutti» che certifica la più inquietante tra tutte le deviazioni, poiché arriva a ritenere ineluttabili comportamenti che, invece, sono soltanto giuridicamente perseguibili e moralmente deplorevoli. Si aprono così le porte a forme ben note di
«un’antipolitica» che, a sua volta, può solo aggravare i problemi, lasciando intravedere una strada pericolosa per il futuro della democrazia. Viene in mente, per contrasto, la bellissima definizione di Papa Paolo VI, che parlò della politica come della forma più alta della carità. E più volte lo stesso Papa Benedetto ha richiamato la necessità di un ritorno alla formazione politica che diventi servizio e attenzione al bene comune.
Nella Lettera Pastorale per la chiusura del Giubileo scrivevo che tutto a Napoli si coniuga nel nome della speranza. Venne un grande Papa, ora Beato, Giovanni Paolo II, a indicare la necessità di non disperderla e di organizzarla al servizio della città; e il suo successore, Benedetto XVI, nella visita a Napoli di quasi cinque anni fa, tornò a indicare la speranza come una grande e irrinunciabile risorsa di questa terra.
Oggi possiamo rallegrarci di una verità che continua a farsi strada: davvero le Porte sono diventate i varchi accoglienti e generosi attraverso i quali sembra fluire il tempo nuovo della chiesa e di Napoli insieme.
Volgendoci con rinnovato amore al capezzale di una città sofferente, abbiamo scoperto di aver forse sanato anche molte nostre ferite: l’amore contagia e restituisce in abbondanza tutto ciò che si compie in suo nome.
Essere cittadini di Napoli significa essere anche parte della sua storia. A ogni livello, nella storia di Napoli è possibile entrare solo da una porta: quella dell’umiltà che si specchia davanti alla grandezza degli eventi che, nei secoli, le hanno dato vita.
Essere iscritto nel registro anagrafico di questa nobile e straordinaria città è un grande privilegio, ma di Napoli, ne sono certo, esiste un’altra anagrafe composta dai tanti nomi di coloro che hanno imparato ad amarla, anche senza esservi nati.
Molti di loro hanno contribuito a farla conoscere in tutto il mondo e hanno lasciato tracce nell’arte, nella letteratura e in tutte le opere di ingegno della quale Napoli resta una delle grandi capitali. Il mio titolo di merito non riguarda tali versanti.
Ma per rendere evidente l’amore senza fine nutrito per questa nostra grande città, che è il solo titolo di merito che mi riconosco, posso esibire una testimonianza che non tradisce: la mia chiesa.
Quella chiesa che mi ha insegnato ad amare ogni giorno sempre di più questa nostra, e da oggi anche più mia, unica, incomparabile e cara città.+ Arcivescovo Metropolita di Napoli