«La solidarietà non è una parolaccia», ammonisce spesso Papa Francesco con un filo di ironia. E aggiunge: «La solidarietà è una parola cristiana». Lo ha ripetuto recentemente visitando a Trastevere la Comunità di Sant’Egidio. Non era la prima volta. Lo aveva già fatto in altre circostanze, per esempio dopo aver incontrato i rifugiati accolti a Roma dai Gesuiti, con i quali si era a lungo soffermato a parlare. Sembra che sia l’incontro vivo con i poveri, con la “carne di Cristo», a far sentire nel Papa l’urgenza di queste affermazioni. Ma sbaglia chi crede che si tratti solo di spinte sentimentali. C’è qualcosa di più profondo: una visione chiara e lucida del nostro tempo e del futuro dell’uomo.
Solidarietà è stata una parola e un’idea potente nel secolo scorso. Ha mosso intelligenze, ha alimentato movimenti collettivi, ha architettato sistemi di redistribuzione del reddito secondo criteri di equità, ha prodotto benessere diffuso in tante parti del mondo. E’ stata anche il motore della creazione di uno Stato “provvidente”, cioè di uno stato che non dimentica nessuno.E’ stata il combustibile per l’affermazione di tanti diritti civili. Ha contribuito a dare dignità al lavoro. In una parola, ha cambiato il corso della storia.Pensiamo all’Europa: il fondamento politico e culturale della nascita di una unione europea nel dopoguerra, dopo gli orrori del nazi-fascismo, è stata la solidarietà. Ed è stata ancora la solidarietà – ricordiamo le vicende polacche con Solidarnosc – ad accendere la miccia della grande rivoluzione pacifica che ha spazzato via i regimi comunisti dell’Est, ricostituendo l’unità politica e spirituale del continente.Poi è cambiato qualcosa. Tony Judt, uno storico molto attento ai mutamenti della sensibilità comune, l’ha detto così: non più l’interesse di tutti, ma i bisogni e i diritti di ognuno; concludendo che «per quanto legittime possano essere le rivendicazioni individuali, per quanto importanti possano essere i diritti dell’individuo, mettere l’accento su simili aspetti comporta un costo ineludibile, e cioè il declino del senso di uno scopo condiviso». Non è ciò che è capitato in questi anni? Il senso di uno scopo condiviso sembra essersi eclissato. “Salva te stesso” è stato il messaggio più diffuso e praticato. Per dirla con Zygmunt Bauman, «nessuno o quasi continua a credere che cambiare la vita degli altri abbia una qualche utilità per la propria vita». E’ la morte del “noi” e la definitiva affermazione del “fondamentalismo dell’io”.Ecco perché ha ragione Papa Francesco quando dice che la crisi economica che ha attraversato il mondo in questi ultimi anni e che sembra non finire, è innanzitutto una crisi antropologica.C’è un passaggio nella Evangelii Gaudium che mi pare illuminante e che è davvero una chiave interpretativa molto penetrante del nostro tempo. Scrive il Papa: «Abbiamo dato inizio alla cultura dello ‘scarto’ che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi'”.La solidarietà con gli sfruttati o con gli ultimi ha da sempre animato passioni politiche e slanci di generosità.Ma se viene messa in gioco l’appartenenza, intere categorie di persone e perfino interi popoli diventano invisibili. Chi si occuperà di loro? Quando il Papa denuncia la situazione di 75 milioni di giovani nel mondo che sono “né-né”, cioè che non studiano e non lavorano, non tratta una questione economica ma pone un problema etico: nessuno si occupa di quei giovani perché sono diventati invisibili. Ripartire dalle periferie vuol dire anche, in un certo senso, ricentrare la storia su quegli orizzonti umani, geografici o culturali che sono diventati invisibili: scarto e avanzo della nostra idolatria del denaro e del nostro neo-paganesimo materialista.Dunque la solidarietà non è una parolaccia. Anzi, è la scelta più saggia per non condannarsi all’auto-distruzione. E’ la base per quella rivolta del gratuito che deve tornare ad animare la politica, la cultura e anche l’economia. Ma la solidarietà è anche una parola cristiana. Anzi, vorrei, dire, una parola profondamente religiosa. Il cristianesimo e tutte le grandi religioni mondiali ci insegnano che non ci si salva da soli.Afferma la Lumen Gentium che «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Non ci si salva da soli.Lo stesso storico evento di Assisi, da cui prese le mosse una nuova stagione di dialogo ecumenico e interreligioso, voleva riproporre e riaffermare, nelle intenzioni di San Giovanni Paolo II, che un antico sogno, quello dell’unità del genere umano, era possibile.La solidarietà è lo spazio umano entro il quale torna ad essere possibile riconoscersi come fratelli. «Di che reggimento siete, fratelli? Parola tremante nella notte, foglia appena nata.Nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità. Fratelli”.Giuseppe Ungaretti scriveva questi versi in mezzo all’orrore delle trincee della Prima Guerra Mondiale, che aveva inizio proprio cento anni fa. Cento anni dopo queste parole possano essere il manifesto di una nuova stagione segnata dalla solidarietà.+ Arcivescovo Metropolita di Napoli