Una rinnovata fede per il bene comune

Inaugurazione l’anno accademico dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Francesco di Sales” di Rende e dell’Istituto Teologico di Cosenza

Un cordiale e fraterno saluto e ringraziamento a S.E. mons. Salvatore Nunnari, Arcivescovo Metropolita di Cosenza-Bisignano, moderatore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e dell’I stituto Teologico Calabro, come anche al prof. don Francesco Marigliano, direttore dell’Istituto, i quali mi hanno invitato a tenere questa relazione per l’apertura dell’anno accademico che ricorda anche il 50° di Fon dazione dello stesso Istituto Superiore.
Sono venuto volentieri per significare la mia stima e amicizia al caro arcivescovo Nunnari e per esprimere un segno di comunione tra i vostri Istituti Teologici e la nostra Pontificia Facoltà Teo logica dell’Italia Meridio na le, di cui sono Gran Can celliere.
Saluto cordialmente sacerdoti, diaconi, religiosi, professori, alunni e partecipanti tutti a questo incontro.
l tema scelto – «Una rinnovata fede per il bene comune» – ci proietta immediatamente nel clima spirituale e pastorale dell’Anno della Fede, indetto dal Papa emerito Benedetto XVI, e che sta per concludersi. In realtà, negli ultimi tempi, a partire soprattutto dal Vaticano II, il Magistero pontificio ha avvertito la necessità e l’urgenza di richiamarci a rinnovare la nostra fede per una rinascita dell’evangelizzazione che, rinnovata nello spirito e nei metodi, desse nuova linfa alla vita spirituale e pastorale nella Chiesa e costituisse un nuovo slancio di testimonianza evangelica anche per i più lontani. È questo il senso della nuova evangelizzazione, predicata dal Beato Giovanni Paolo II e proseguita dai suoi successori. Gli obiettivi da raggiungere erano chiari: comunicare la fede; educare alla fede; vivere la fede. Sono come tre pilastri su cui costruire l’architettura dell’attività pastorale della Chiesa.
Nel cammino di approfondimento di questo vasto e impegnativo programma, a me sembra che stia emergendo un dato estremamente importante, quasi un interrogativo che l’oggi della Chiesa e della storia ci impone: la nostra fede è autentica e matura in modo da poter essere sale e lievito della nostra società, capace di dialogare con tutti e disposta a mettersi in gioco pur senza perdere la propria identità? Siamo noi, pastori e gregge, pronti ad intervenire nella difficile condizione delle nostre comunità cittadine in modo da favorire quel bene comune che è alla base di ogni crescita della società ecclesiastica e civile? In realtà , soprattutto negli ultimi tempi, il magistero pontificio – per citare solo gli ultimi Papi: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco -, hanno insistito molto sulla dimensione pubblica del credere, sulla necessità di permeare di senso cristiano le strutture portanti della convivenza sociale.
D’altra parte, una fede che vuole essere incarnata, non può non tener presenti le condizioni culturali, sociali ed economiche della nostra realtà, le quali destano serie e gravi preoccupazioni. Ad antichi mali, come sappiamo, già esistenti nelle nostre terre, se ne sono aggiunti altri, dovuti ad una crisi economica che, nata lontana da noi, ha reso ancora più difficoltose le già precarie condizioni di vita della nostra gente. Se volessimo solo enumerare le sofferenze e le umiliazioni dei nostri cittadini, ci troveremmo di fronte ad un interminabile, penoso elenco di disagi sociali.
Aumenta il numero dei disoccupati e dei senza fissa dimora, degli emarginati, degli sconfitti e dei disperati. Il futuro dei giovani e delle nostre città è a rischio.
In questa drammatica realtà, sorge impellente la domanda: le nostre comunità ecclesiali, pur ricche di fede, possono rimanere inerti di fronte a tali situazioni? Come Cristiani e in nome della nostra fede, fondata sulla Parola di Dio e sul messaggio evangelico, non possiamo non accorrere al capezzale di una società gravemente ammalata e in pericolo di vita. Un vero discepolo di Cristo non può nascondersi né passare oltre di fronte a chi chiede di essere aiutato. È Cristo che chiede di essere soccorso. Siamo tutti membri della stessa famiglia umana, creata da Dio e redenta da Cristo. Le comunità nelle quali viviamo sono parte di noi stessi; sono il nostro corpo, sono ossa e carne della nostra umanità, la quale vive e si dilata nelle nostre piazze, nelle nostre città, nei nostri paesaggi e nei nostri monumenti.
In ogni comunità umana respiriamo la presenza di Dio, il quale passa attraverso le nostre arterie e si fa storia. Dio non è lontano da noi o abita in altre città. Siamo noi la sua casa, siamo noi il suo cielo. Egli è vivo e ci aspetta nelle nostre case, nelle nostre mura, in tutti i tabernacoli umani.
L’interesse del cristiano per la comune sorte della comunità non è di natura sociologica. Altri, prima e più di noi, hanno messo le loro competenze a servizio della cittadinanza. Noi, da parte nostra, vogliamo testimoniare Cristo, offrendo la nostra disponibilità sincera, umile e concreta, perché si realizzi una vera civiltà dell’amore, una casa comune nella quale la coabitazione non sia fatta di interessi individualistici e discriminatori.
È una questione di fede, come ci insegna tutta la Sacra Scrittura. In realtà, nella tradizione giuridico-cristiana è insita la consapevolezza che il rapporto del credente con Dio non si esaurisce in uno spazio sacro, né può essere ridotto alla mera dimensione cultuale. Così, i Profeti dell’Antico Testamento avevano preso le distanze da chi enfatizzava il valore del tempio, senza farvi corrispondere un’adeguata condotta di vita.
Il vero culto per loro è ogni pratica di autentica giustizia, perdono, onestà.
A sua volta, la fede cristiana nasce e si misura sul mistero dell’Incarnazione, che abbraccia l’esistenza umana nella sua interezza. Vi è coinvolto tutto l’uomo, con le sue relazioni personali, i suoi progetti per il futuro. Il vero credente orienta a Dio il passato e il futuro, ma anche il suo presente, gravido di responsabilità per la vita e per le sorti dell’intera comunità. Il Vangelo ci insegna che è colpevole nella stessa misura, sia chi omette una prescrizione “religiosa”, sia chi trascura un dovere “sociale”. Il cristiano “praticante” non è chi frequenta formalmente le celebrazioni religiose, ma chi pratica gli insegnamenti del Maestro; chi vive il Vangelo della carità e della misericordia; chi si fa buon samaritano;chi dà un pane all’affamato e un bicchiere d’acqua all’assetato.
L’esperienza, poi, ci dice che l’accentuazione unilaterale del culto può portare paradossalmente ad escludere Dio dalla propria vita. Può accadere che si conceda a Dio un tempo particolare, ma poi lo si invita a non invadere il proprio.
Gli si riconosce il diritto di abitare un luogo sacro, ma lo si esclude dal resto del territorio. Se sta in chiesa, si pensa, egli sta in città. La Chiesa è la sua casa, la città è nostra, senza alcuna intenzione di condividerla con lui. Il pericolo, allora, è che ci si può sentire buoni cristiani perché partecipi ai riti religiosi o perché assidui frequentatori delle sacrestie, e non si avverte, poi, la forte valenza cristiana delle scelte di vita, del tempo feriale dedicato al lavoro, alla famiglia, alla società.
Che cos’è il bene comune? I vescovi italiani, nel nuovo documento del 2010 sul Mezzogiorno, rispondono: “È l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”. Non è quindi il bene di una sola persona o diretto all’esclusivo soddisfacimento del suo egoismo.
Al contrario esso è, come scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, il bene di quel “Noi-Tutti” formato da individui, famiglie e gruppi intermedi, che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. In parole più chiare, il bene comune è esigenza di carità e di giustizia. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene che risponde anche ai suoi reali bisogni.
Educare al bene comune, come hanno sottolineato i Vescovi italiani nel documento di programmazione educativa per i prossimi anni, è esigenza pastorale da cui non possiamo prescindere, a cominciare dalle istituzioni accademiche ecclesiastiche. Per questo, è necessario attingere alle sorgenti evangeliche, come ci ha insegnato il Vaticano II, in modo da ispirare e dare concretezza al nostro progetto di evangelizzazione, finalizzato al raggiungimento del bene nella sua accezione più vasta: di amore e di accoglienza gratuita del prossimo, di sostegno per chiunque abbia bisogno, senza discriminazioni di etnia, ceto, classe sociale, religione.
Ma questo obiettivo non è facile, non solo perché, come ci ricorda il compendio della Dottrina sociale della Chiesa, è «arduo da raggiungere giacché richiede la capacità e la ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio» (167), ma anche perché, come Chiesa, non sempre abbiamo avuto la piena consapevolezza di questo dovere e non sempre l’abbiamo messo in pratica.
È necessaria, pertanto, una rinnovata consapevolezza del nostro ruolo di cristiani e avere una precisa direzione dei nostri metodi formativi e del nostro agire pastorale. Forse, per molto tempo, ci siamo chiusi in noi stessi e non abbiamo avuto il coraggio di guardare “oltre”.
In realtà una fede chiusa nelle mura del tempio non può essere feconda né per noi, né per gli altri. Gesù, che è venuto per compiere la definitiva missione salvifica, non ha impegnato il suo tempo in ritualità celebrative, ma nel rimettere in piedi un’umanità ferita e disperata. Per Cristo, è questo il Regno che il Padre vuole realizzare: consentire all’uomo di camminare con dignità verso il futuro, verso la pienezza della vita.
Comprendiamo così che non è la città a servizio della Chiesa, ma la Chiesa a servizio della città: qui si costruisce il Regno, la vita autentica indicata dal Maestro.
L’invito, che da anni rinnovo ai miei fedeli, è di “uscire dal tempio”, andare incontro alla gente che vive in situazioni di marginalità morale e materiale, senza la preoccupazione di “gettarci nella mischia” e di “sporcarci le mani”.
La fede cristiana – lo sappiamo – non si limita ad accogliere delle verità astratte. Esige di essere tradotta in concretezza di vita. Alla retta fede (rectitudo fidei) deve accompagnarsi sempre un retto agire (rectitudo morum). Tuttavia, non è solo in questa direzione che va il nostro impegno.
Tra i diversi ambiti in cui la fede deve concretarsi, da quello personale a quello ecclesiale, dobbiamo privilegiare quello più vasto della convivenza umana. È soprattutto qui che si registrano le carenze maggiori perché qui manca finanche la coscienza della propria inadeguatezza.
Certamente, non vogliamo trascurare i nostri ideali in tutti i settori della nostra esistenza; ma è necessario concentrarsi sul valore dell’etica pubblica, là dove si giocano i destini di tutti noi.
Qui il campo è vastissimo perché comprende tutto l’agire dell’uomo: da quello culturale a quello sociale, da quello economico a quello più specificamente politico. In breve possiamo dire che, fino a quando l’uomo resta oggetto e non soggetto delle scelte che guidano il suo impegno sociale, non vi può essere vero sviluppo, ma solo successo effimero e superficiale, e non si può avere una svolta nella storia delle comunità e dell’umanità.
Bene comune ed etica vanno di pari passo e formano le costanti dell’agire umano perché ci riportano alla centralità della persona. Papa Benedetto XVI ha affermato che l’etica non è una cosa esterna alla razionalità. Solo quando si prescinde dall’uomo, si creano problemi irrisolvibili al singolo e alla società. Ne è esempio, per farne uno, la difficile congiuntura economica, che sta investendo il mondo intero, il nostro continente, il nostro Paese e, in particolare, le nostre regioni meridionali. Oggi ci sentiamo come schiacciati dalle grandi speculazioni finanziarie di spregiudicati, i quali non hanno in alcun conto il rispetto degli altri né si preoccupano dei danni mortali che arrecano a milioni di persone, provocando pericolosi cataclismi sociali. La responsabilità verso gli altri è morta.
Max Weber affermava che l’etica della responsabilità consiste nel fatto che l’uomo deve rispondere delle conseguenze delle proprie azioni che hanno un peso sulla vita dei propri simili. Per questo, c’è bisogno di uomini retti, di cristiani autentici che, per fede, si sentono fortemente impegnati a promuovere il bene di tutti.
Alla luce di questa verità, credo che dobbiamo fare un piccolo esame di coscienza e domandarci, ad esempio: come è avvenuto che alcune colpe venissero fortemente stigmatizzate dalla coscienza dei cristiani, mentre altre sono state di fatto ignorate? Perché non abbiamo usato il necessario rigore morale nel condannare chi sistematicamente saccheggia le risorse economiche della comunità o danneggia irreparabilmente l’ambiente? O chi usa il sistema mafioso della violenza e della sopraffazione per costruire il proprio regno di morte e di paura; o anche, chi non paga le tasse, o il falso invalido o chi marca il cartellino per colleghi latitanti? Tutti questi si macchiano di una colpa grave perché coscientemente e continuamente si appropriano di risorse destinate al bene comune.
Oggi soprattutto c’è bisogno, cari amici, di una crescita della coscienza civica e della volontà di partecipazione per poter contribuire ad una crescita decisiva delle nostre comunità. È necessario che tutti acquisiscano una sensibilità più viva per gli interessi generali della collettività, non solo elaborando un sapere teorico sul bene comune, ma operando concretamente per creare strutture capaci di trasformare il tessuto della nostra convivenza quotidiana. Quando le condizioni per realizzare il bene comune si realizzano a rilento, tanto da non consentire il raggiungimento nei tempi abituali di un’esistenza, si finisce con il ledere i diritti della persona e con il penalizzare i membri più fragili della popolazione.
Dobbiamo essere consapevoli che tutti saremo responsabili se non sapremo ascoltare il grido di allarme che si leva dal cuore della gente. Il più delle volte, la nostra sembra essere una fede a responsabilità limitata; limitata ad alcune pratiche religiose, ad alcuni obblighi rituali. È necessario prendere coscienza di una responsabilità di credente a tutto tondo e smettere di essere “cristiani da salotto”, “educati, ma senza fervore apostolico”, come ha lamentato Papa Francesco, che ha anche invitato a chiedere «la grazia di dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa» (omelia a Santa Marta, del 16-5-2013).
“Responsabilità”, dunque, sarà un termine chiave nell’auspicato impegno ecclesiale.
Essa potrà diventare una sorta di ” grammatica pastorale”, una categoria trasversale utile ad articolare le molteplici attività ecclesiali.
L’assenza di interesse verso il bene comune, il ripiegamento su se stessi, l’autoreferenzialità sono all’origine del degrado del tessuto civico e religioso.
A riguardo, è necessario coinvolgere tutti quegli organismi che, per loro natura, hanno una grande responsabilità in questo campo, soprattutto le aggregazioni educative che possono diventare una formidabile occasione di crescita e una scuola di futuro per le nostre generazioni. Mi riferisco, in particolare alle Facoltà, agli Istituti Teologici, agli Istituti Superiori di Scienze Religiose, alle scuole in genere, alla famiglia e alla parrocchia: sono tutti strumenti indispensabili di educazione ad una coscienza rinnovata della retta fede e dell’impegno civile.
L’impegno che ci attende in questo particolare momento della storia della Chiesa e del mondo è difficile, ma anche molto entusiasmante.
Dobbiamo partire da Cristo e dalla Chiesa; da Cristo povero e obbediente che ha fondato, ha sposato una Chiesa povera, alla quale ha dato il mandato di andare nel mondo per servirlo e annunciare il Vangelo di salvezza. Andare significa mettersi al servizio di tutti: per sostenerli nelle loro battaglie; per curarli, se feriti; per accompagnarli nel cammino; per costruire insieme la città dell’uomo, che è insieme il Regno di Dio. Certamente, abbiamo l’umile consapevolezza dei nostri limiti, ma anche la convinzione che, come credenti e discepoli di Cristo, disponiamo di una risorsa che ci viene dall’Alto, dalla vicinanza del Signore Risorto, che è sempre accanto a chi si batte per rendere la vita umana più dignitosa e rispondente al progetto di Dio.
La consolazione sarà di sentirsi, in Cristo, una sola cosa con la gente; di essere il punto di confluenza di tutte le attese, le inquietudini, i sogni e le delusioni del nostro popolo; di ascoltare, piangere e gioire con tutti.
Camminiamo con gioia – “Canta e cammina” diceva Sant’Agostino – con un atto di fiducia nel Signore della vita. A lui appartengono la storia e la Chiesa, la nostra fragilità e la nostra fede. Nelle sue mani è la nostra vita e quella dei fratelli e sorelle affidati alle nostre cure.Dio vi benedica e ‘a Maronna v’accumpagna!+ Crescenzio Card. Sepe
Arcivescovo Metropolita di Napoli

condividi su