Cara Marisa,
scrivo a te stasera, per ringraziarti del tuo impegno, perché in questo tempo, così difficile per tutti, non ti sei risparmiata e, nonostante la sofferenza che ti porti dentro, continui a non venir meno al tuo “esserci” per gli altri, per la verità nella quale credi. Anche se non sempre ti senti riconosciuta o compresa da chi ti sta accanto. E questo ti fa male, ma io voglio ringraziarti per la tua fatica e il tuo donarti.
Sai, Marisa, nel Vangelo di domenica prossima c’è un’espressione che spesso mi mette in crisi: “Vogliamo vedere Gesù”. Il desiderio che mette in movimento. La Quaresima che invita a desiderare.
E Gesù racconta la parabola del chicco di grano caduto a terra. Per tre giorni caduto nella terra, nell’invisibilità, nel silenzio. Ma quel seme riposava nella terra: è rigermogliato. È risorto! E noi ancora oggi vediamo l’albero dare frutti. La linfa giunge fino a noi. E ci rende vivi. Quella parabola ci viene consegnata non solo come memoria, ma come invito: “se uno mi vuol servire, mi segua”. Marisa, al verbo vedere si accompagna il verbo seguire. “Vogliamo vedere Gesù” era il desiderio. Ora ti viene detto: “hai visto, seguilo”. Anche tu sii chicco di grano. Stai nella terra di tutti, nell’apparente insignificanza dei gesti quotidiani, nella dedizione apparentemente inosservata, stai nella terra dell’apparente insuccesso, nella terra delle domande senza risposte. E ricorda al tuo cuore la piccola parabola di Gesù: il seme produce molto frutto. Anche se gli occhi, troppe volte stanchi, non vedono. Credere è vedere una spiga di grano laddove tutti vedono un seme marcire.
Che gioia d’estate appoggiare lo sguardo sui campi dorati, sulle spighe che si arrampicano verso il cielo, sugli steli che inanellano danze nei meriggi assolati, sul vento che li accarezza all’imbrunire del sole. Ma all’inizio non era così: sotto terra c’era un seme, e ti avrebbe sporcato le mani solo a toccarlo. Non ci avresti scommesso nulla. Seme e germe non sono due cose diverse, sono la stessa cosa, ma tutto trasformato in più vita. La gemma si muta in fiore, il fiore in frutto, il frutto in seme.
Lassù sulla croce, tra il diluvio e l’arcobaleno, è piantata la tenda del cristiano, l’unico spazio in cui il Vangelo e i drammi dell’uomo si danno appuntamento, per abbracciarsi.
Vogliamo vedere Gesù: di questo dovrebbe gioire la Chiesa. Il desiderio che ancora abita tanti uomini e tante donne del nostro tempo, non sempre frequentatori di chiese. Molti li vedremo venire nelle chiese nei giorni della Settimana Santa e a portarli sarà il desiderio di vedere Gesù.
Vogliamo vedere Gesù… chissà se quell’udienza è stata concessa? C’è gente che lo cerca, che si sente attirata dalla sua figura. È l’ora del Maestro, l’ora del successo, della popolarità, della gloria. Di fatto, Gesù afferma: “è giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo”. Ma subito dopo, darà a quell’ora e alla glorificazione un contenuto molto diverso dalle attese di Filippo, di Andrea e dei greci. Non è l’ora della notorietà. È invece l’ora del chicco di grano che deve scomparire e morire sotto terra. È l’ora di una dolorosa seminagione, non della messe trionfale. L’ora di Gesù è l’ora della passione, l’ora del passaggio da questo mondo al Padre. E Gesù affronta l’ora della morte non come un eroe, ma come un uomo tra gli altri, un uomo che ha paura di morire. Anche la sua anima è turbata. Lui è sconvolto. E appare debole, fragile, indifeso, smarrito.
Cara Marisa, il dolore appare sempre scandaloso, impresentabile, spaventoso a vedersi. Forse è possibile cantare (e piangere) portando la croce, ma non è possibile portare la croce gonfiando il petto o assumendo pose edificanti. Solo nella debolezza, non nella forza, è possibile portare la croce. Gesù, quando vede avvicinarsi la sagoma inquietante del calvario, non sospira devotamente: urla. E, appena prima di morire, l’aria sarà lacerata dal suo grido. Noi desidereremmo che l’Uomo dei dolori ci fornisse delle risposte. Invece sulle sue labbra troviamo solo delle domande, a cominciare dalla più sconvolgente: “Perché mi hai abbandonato?”. In quella voce ci sono la nostra disperazione, i nostri tormenti, i nostri dubbi, le nostre proteste, le nostre ribellioni. E quelle forti grida non sono ancora spente.
“Solo in Lui i miei gemiti diventano preghiera, in Lui la mia solitudine ritrova un’amicizia, e la mia notte la promessa dell’immancabile Luce” (Turoldo).
L’esaudimento da parte del Padre non è concesso nel dispensare Gesù dalla prova tremenda, ma nella trasformazione della sofferenza in cammino di salvezza. Anche il dolore può diventare sacramento di fraternità, scuola di umanità. Perché il dolore trasforma l’uomo. La sofferenza diventa perciò via di salvezza in Cristo.
Marisa cara, la croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. Si è cristiani per attrazione: “Attirerò tutti a me”, e la fede è contemplazione del volto del Dio crocifisso. Gesù non affronta la crocifissione con la forza, ma nella debolezza e, soprattutto, nell’amore.
Vogliamo vedere Gesù. Solo nella luce pasquale Filippo sarà in grado di sciogliere l’enigma di quell’udienza. Era solo rimandata. Filippo, nel suo cammino, incontrerà ancora tanta gente che avanzerà la stessa richiesta. E come lui, anche Andrea, gli altri apostoli. E pure noi. E, anche se Cristo non cammina più su questa terra, bisognerà “mostrarlo”. L’appuntamento dovrà essere fissato. Non sarà consentito sostituirlo coi libri o le argomentazioni teoriche. Chissà, se nel bel mezzo delle nostre discussioni, delle nostre belle celebrazioni, convegni, difese appassionate, veniamo sfiorati dal sospetto che qualcuno ci possa avvicinare per una richiesta insolita: a parte tutto questo, è possibile vedere Gesù? È la vita del cristiano che deve essere trasparenza della luce pasquale.
“Dove sono io, là sarà anche il mio servo”. Disposti a perdere la vita, non a soddisfare ambizioni e vanità. Capaci di respingere le suggestioni accomodanti e preferire l’umiltà. È scegliere tra posizione di potere e privilegio e la posizione scomoda sulla croce. Tra simpatia ed autenticità. Tra compromessi e costosa fedeltà. Tra l’orgoglio e l’amore che si fa strada lentamente, liberamente. Nel segreto dei cuori e nella libertà delle coscienze.
“Chi ama la sua vita la perde”. Hai ragione, Marisa: anche la Chiesa deve morire a sé stessa; non può evitare, se vuole aprirsi agli altri, di rivivere questo mistero di morte e resurrezione. La Chiesa è per il mondo, non per se stessa. “Non possiamo dirci davvero cristiani se, insieme alla fede nel Regno, non c’impegniamo a contrastare le ingiustizie dell’al di qua. Non possiamo dirci davvero cristiani se non ci avventuriamo nell’agitato mare della Storia e, uscendo dai luoghi sacri, consacriamo quelli più deserti, periferici, abbandonati.”
Attirerò tutti a me: lo sguardo è fisso sul volto di Gesù, che parla ancora con la sua vita. Ed è questo suo amore a restare fecondo anche sulla croce. L’amore di Gesù lì sta convertendo ancora, sta aprendo occhi e cuore. Ecco, Marisa: da quella croce l’amore continua a generare, a diventare fecondo. Ed è sempre Gesù a farsi vicino, in tutto quello che sta vivendo. Anche nella visibilità dell’amore, delle ferite, delle lacrime, il Signore viene sempre. Il suo amore non si arresta, rifà la storia dal di dentro, raddrizza, consola, costruisce, raggiunge, asciuga lacrime. Ci dona di diventare partecipi. Ci raggiunge con la sua voce, ci chiama a stare con Lui, noi incapaci di accompagnare le domande e il dolore dell’altro, noi incapaci di aprire le porte delle chiese, incapaci di credere che davvero la croce, su quella croce, è l’albero della vita. Non fallimento, ma vita compiuta, non solitudine ma vita di figlio e fratello.
Il mistero della morte si fa mistero di prossimità. Il suo passare al Padre porta sulla terra la vita che possiamo riconoscere e accogliere. È diventata la porta sull’umano. Nella sua morte tocca fino in fondo la nostra umanità. Dona fecondità anche alla morte. Vita dalla morte. Ha vinto il suo abbandono a Dio, ha vinto la sua passione per noi umani. Come a dire che l’amore, la passione per Dio e per l’uomo non muore, è più forte della morte. Più forte della morte è l’amore. È un amore che non può morire.
† don Mimmo Battaglia