“Buongiorno a voi tutti!
La presenza di ciascuno di voi e la presenza della Chiesa in questo spazio sacro, è il segno di una rinnovata solidarietà con tutti coloro che con il proprio lavoro edificano la comunità civile. Lo spazio del lavoro è uno spazio sacro. E stare qui, oggi, nel luogo in cui circa 260 lavoratori e lavoratrici si impegnano per la torrefazione e la distribuzione del caffè, vuole essere segno di prossimità verso tutti i lavoratori che onorano la propria retribuzione attraverso la fatica di ogni giorno.
Viviamo una stagione particolarmente complessa, segnata dagli effetti della guerra in Ucraina e dalle migrazioni di tante donne e tanti uomini che rischiano la propria vita per sbarcare in Europa con il sogno di un lavoro stabile e ben retribuito, in un tempo in cui il lavoro continua a preoccupare la società civile e le famiglie, e impegna a un discernimento che si traduca in proposte di solidarietà e di tutela delle situazioni di maggiore precarietà. Nel suo discorso per i 125 anni dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS), lo scorso 3 aprile, papa Francesco ha lanciato tre appelli che ha sintetizzato in tre piccoli slogan: “no al lavoro nero, no all’abuso del lavoro precario, sì al lavoro dignitoso, che è sempre libero, creativo, partecipativo e solidale” (EG n. 192).
Proprio per questo il mio primo pensiero va, in particolare, alle lavoratrici e ai lavoratori che hanno perso la vita nel compimento di una professione che costituiva il proprio impegno quotidiano, l’espressione della propria dignità e della propria creatività, e anche alle famiglie che, per la precarietà, in particolare di donne e giovani, i «nuovi poveri», non hanno visto far ritorno a casa chi, con il proprio lavoro, le sosteneva amorevolmente. Un Paese che cerca di risalire positivamente la china della crisi non può fondare la propria crescita economica sul quotidiano sacrificio di vite umane. Con responsabilità e realismo, siamo chiamati a inventarci scenari nuovi e inediti con il fattivo e convergente contributo di tutti: imprenditori e operai, sindacato e politica, società civile e Chiesa, semplici cittadini e famiglie. Senza lavoro non c’è dignità. Senza lavoro perdiamo anche l’identità delle persone. Non c’è giustizia senza lavoro, ma non vi deve essere lavoro senza giustizia. E su questo c’è ancora molto da fare, tanto da lottare. Vi sono diritti che vengono prima del lavoro ma anche il lavoro che non può essere privato di diritti.
Come comunità cristiana non ci tireremo indietro e faremo la nostra parte nella speranza che con le istituzioni e la società responsabile si possa dar vita ad una cordata sociale all’insegna della solidarietà, della giustizia e della pace. Solo così scaleremo insieme questa montagna insidiosa, senza lasciare indietro nessuno, affrettando nella notte l’aurora di un mondo nuovo.
Resta, però, drammatica la situazione di molti napoletani che hanno perso o perderanno il lavoro. La disoccupazione, come sappiamo bene, trascina con sé tante fragilità. Alle parole d’ordine degli ultimi decenni come “competitività, produzione, profitto, crescita”, si dovranno affiancare parole che, pur entrate nel lessico culturale e giuridico, sembravano assodate e si pongono invece come traguardi: “solidarietà, sussidiarietà, dignità della persona e della famiglia”.
Anzi, proprio queste parole dovranno prendere il timone della barca, per evitare che la tempesta la rovesci. Sarà necessario rinsaldare le due serie di parole, per capire che l’economia di mercato trova la sua misura nell’economia dell’equità. L’inizio della nostra Carta Costituzionale afferma: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”; dove “lavoro” è inteso nel senso più ampio possibile, raccogliendo tutte le attività che portano beneficio materiale e spirituale alla società. I padri costituenti avrebbero potuto indicare altri fondamenti, effettivamente evocati: ad esempio cominciare da un ideale come la dignità, oppure fondare lo Stato sul rispetto, la tolleranza, l’impegno, la giustizia, il sacrificio. O, magari, richiamare all’inizio il concetto di persona, la realtà della famiglia o il bene comune. Scelgono, invece, di fondare l’Italia sul lavoro. Ed è stata una scelta profetica, di cui ora avvertiamo, dolorosamente, l’importanza. Fondare lo Stato sul lavoro significa ritenerlo costituito non da un ideale superiore, per quanto elevato, ma dall’apporto di tutti i cittadini, da questa rete di base che lo alimenta e lo sostiene. Il lavoro è il termometro più sensibile del grado di dignità, rispetto e giustizia di una convivenza civile; è il volano che sostiene la persona, la famiglia, la società e lo Stato; è la misura della solidarietà e dell’equità, è lo strumento che realizza il bene comune. Il “figlio del falegname” assista tutti nell’opera che attende il nostro Paese, l’Europa e gran parte del mondo: ricostruire la rete sociale attraverso la riorganizzazione e il rilancio del lavoro.
In gioco c’è la capacità di futuro, affaticati come siamo nel mantenere alta la speranza. Tanta gente di queste nostre città geme e soffre le doglie di un parto che non avviene nel mondo del lavoro. Quanti e quante sono oggi ancora i nostri fratelli e sorelle senza lavoro. I casi di povertà, di depressione, non sono che i “luoghi circostanti”, i dintorni drammatici alla disoccupazione! Baratro in cui il nostro Paese va piombando sempre più! Per molteplici cause. Perciò, sento nel cuore mio, di pastore, l’importanza di due cose: tenere alte le prospettive ed educare tenacemente ad esse, soprattutto tramite la scuola e la politica. Per questo, credo che la questione lavoro debba ritornare sulle lavagne della scuola, sui pulpiti delle chiese, sui tavoli delle nostre riunioni formative. Faccio perciò un accorato appello alle Istituzioni di Governo ad assumere pienamente il coraggio della Politica! Perché ogni persona abbia la dignità del lavoro e il pane necessario per sé e la propria famiglia. La Politica deve tornare ad accordarsi al bene del popolo che essa governa e guida! Non è simbolismo! È dovere! La Politica è la “terra benedetta” abitata dalla giustizia, dalla lungimiranza, dalla cura! Non ha il compito di indicare la strada, ma quello di realizzarla! Con scelte lungimiranti soprattutto davanti alle crisi ricorrenti di tante aziende.
Questa è la sfida: educare alla speranza per educare al lavoro, nella risignificazione dell’azione politica. E allora, chiedo alla Politica di stare accanto alla gente, di ascoltarla, di seguirne i passi, di non tagliare la spesa sociale; non intervenendo adeguatamente nelle ferite aperte, esse non saranno feritoie di grazia ma cancrena sociale, che la camorra, astutamente e perfidamente, utilizzerà per i suoi iniqui scopi!
Chiedo alla Politica di stare accanto ai poveri in carne ed ossa, uomini, donne e bambini, volto per volto, nome per nome.
Chi sono i poveri oggi? Sono quelli che ancora le statistiche misurano sulla base di ciò che possiedono di misero in un contesto miserevole. In poche parole, formule numeriche che misurano la fame delle persone e la quantità di cibo che riescono a portare a tavola, in abitazioni assai incerte, il cui tetto, per tanti in numero crescente, è il cielo che li copre senza che qui esso acquisti nulla di poetico e di romantico. I poveri sono ovunque nel Paese, dispersi e nascosti nelle pieghe del proprio pudore e della ipocrisia di chi fa finta di non vederli, se non in qualche telegiornale, ingannevolmente di inchiesta, che li riprende davanti alle mense della Caritas, irrispettosi della loro dignità umana e di quella della “cittadinanza” sequestrata. I poveri sono anche le regioni povere, le terre inaridite e assetate dell’acqua che si perde nello spreco e nelle condotte inesistenti o rovinate. Le terre consumate dal cemento e dal cedimento per incuria o per devastazioni diverse.
I poveri: sono il lavoro. Quello che manca e quello dequalificato, quello sfruttato e quello mal pagato. Sono il lavoro che uccide nelle fabbriche “distratte”, nei cantieri insicuri, nei campi della nuova schiavitù, dove quella carne umana sopravvissuta al mare viene comprata e venduta a pochi euro. I poveri sono il lavoro, la questione oggi delle questioni irrisolte di un nuovo capitalismo cinico e beffardo quanto crudele e stupido. Un lavoro che, se è sottopagato, spesso dequalifica e aliena giovani che hanno studiato tanti anni, non solo per sentirsi nobilitati secondo quell’antico principio, ma per sentirsi protagonisti della crescita complessiva della società, costruttori della ricchezza per tutti. La ricchezza, non dimentichiamolo, che è di tutti. Sempre.
Come il Popolo di Israele durante la schiavitù in Egitto, anche oggi c’è un grido che sale dalla terra verso Dio, un lamento di schiavi che si innalza verso il cielo. Anche oggi c’è un Dio che “ascolta”, “si ricorda”, “guarda” e “se ne dà pensiero”.
Questi quattro verbi diventano i verbi della cura che Dio ha avuto per il suo popolo, conducendolo verso una casa comune che concede in dono. Quella casa comune che ancora oggi Dio ci consegna affinché possiamo custodirla (Gen 2,15), non permettendo a nessun faraone che si sfrutti il lavoro dei minori, salvandoli dalla deriva della dispersione scolastica, accompagnandoli nella formazione verso un lavoro che sia libero e non schiavo, casa comune in cui l’economia non privilegi la depredazione ma il dono, in cui le relazioni con l’imprenditoria non siano mai di un tiranno verso il servo ma di fraternità, impegnandosi per la sostenibilità ambientale, avendo attenzione a un’economia circolare dei rifiuti, facendo i conti con la limitatezza delle risorse a disposizione, facendo scelte che riducano l’impronta ecologica propria e della comunità.
Ma sentiamo forte la necessità di Giustizia sociale, senza la quale non potrà mai esservi pace.
Troppo spesso i poveri sono stati offesi con generalizzazioni ingiuste, che non tengono conto della dignità, delle aspirazioni, dei sogni, dei talenti di ognuno.
Se pensiamo ad esempio alle politiche delle nostre città, ai servizi verso i cittadini più deboli e fragili, e proviamo a farlo attraverso le chiavi di lettura della Giustizia, non potremo più limitarci a percorsi meramente assistenziali, diritti sociali che appaiono come concessioni, come un lusso che non sempre ci si può permettere.
La Politica, se davvero vorrà riscrivere la storia di questi territori, avendo cura anche e soprattutto dei propri figli più fragili, dovrà riaccendere la fiamma della Speranza e ritessere i fili della Fiducia. Due elementi, Speranza e Fiducia, che sono al momento le vere risorse assenti nelle nostre comunità.
Si tratta di ripartire dalle persone, e quindi dalle relazioni, riattivando i legami solidali tra i cittadini.
La politica deve dimostrare che lo Stato c’è e solo gli investimenti e il lavoro lo dimostreranno realmente. Guardiamo a San Giuseppe lavoratore, come esempio di gratuità, prossimità e fedeltà che ci insegna a fondare la casa, il nostro Paese, come ha fatto lui, cioè sulla solidità della fede e dei valori di giustizia, inclusione, reciprocità e cooperazione, per custodire con amore la famiglia, le città, le nostre terre con tutte le loro ricchezze e risorse. Le nuove strade occupazionali nascano da coscienze rinnovate che sanno spezzare il pane del presente, lottando perché a nessuno manchi il necessario e la dignità!
Prego per tutti, per voi imprenditori che portate avanti il lavoro con giustizia e per voi lavoratori e lavoratrici. Per tutti. Dalla stessa parte e prego perché a nessuna persona manchi il lavoro e che tutti siano giustamente pagati e possano godere della dignità del lavoro e della bellezza del riposo.”