“Tutti gli occhi sono fissi su Gesù. Sono occhi che scrutano, che chiedono. Occhi che giudicano, occhi perplessi. Occhi inquieti, occhi di scettici, occhi di amici. Come splendono quegli occhi, e quanto pesano!
E oggi me li sento inchiodati addosso io. Ma io non ho, come Gesù, la forza di sostenerli. Dio sa come vorrei, in questo giorno così importante, stare seduto dalla parte vostra, all’onda dei richiami, all’urto della Parola; lasciarmi scavare il cuore dalla bellezza di questo incontro.
“Lo Spirito Santo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore.”
È su di me che devono essere puntati gli occhi, o non piuttosto su di Lui che ci parla, che ci innamora, che ci tormenta, che ci libera? Ho ricevuto soltanto io l’unzione dello Spirito o non siamo tutti quanti noi, popolo di consacrati, a essere spinti, per questo annuncio di liberazione ai poveri, agli oppressi, ai prigionieri?
Allora voglio sedermi accanto a voi, immergermi nel flusso del sacerdozio profetico e regale del popolo di Dio e, semmai, in forza del mio sacerdozio ministeriale e del mio servizio episcopale, aiutarvi a puntare gli occhi su di Lui. Si, gli occhi su di Lui, Signore della nostra vita e della storia.
Stare accanto a voi, per cogliere la speranza, per costruirla alzando ponti e non muri, per tracciarne una strada e, soprattutto, per far tessere la rete che essa stessa genera nel cuore.
Il Signore è il Dio che ha posto il suo fine al di fuori di se stesso, il cui fine è l’uomo, la cui passione è l’uomo. Anzi, la passione di Dio è il povero, il cieco, il prigioniero, l’oppresso. E ricomincia, dalla periferia della terra, dai sotterranei della storia, da coloro che non ce la fanno, una nuova creazione.
Dio non è nella rigidità, Dio non è nel trattenersi, Dio non è nel chiudersi. È nello sbilanciarsi, che è lo sbilanciarsi dell’amore. E si rivolge a tutte le povertà, alla fame di pane e a quella di senso. E colma la vita non di cose, ma di persone. Da amare. In quella sinagoga di Nazareth, come questa sera in questa piazza, è l’umanità che si rialza, che riprende il filo della corrente verso la gioia, la luce, la libertà. Non per propria forza, ma per un seme di luce venuto da altrove. E Dio è il suo vento.
“Mi ha mandato per predicare un anno di benevolenza del Signore”. Un anno, cioè un secolo, mille anni, una storia intera, fatta solo di benevolenza e di tenerezza da parte di Dio. E noi a tentare di prolungarla. Chiesa di Napoli, ora sai da dove ripartire: dalle tue periferie, dagli uomini del pane amaro, dagli affamati di tenerezza, dagli esclusi. E ricomporre in unità i frammenti di questo mondo esploso. Isaia esprime la speranza del popolo, desideroso che il Messia venga a prendersi cura dei poveri, scoraggiati da tante cattive notizie, feriti nel cuore più che nelle membra, trattati come prigionieri dagli interessi dei potenti. E annuncia che l’Unto, quando verrà, trasformerà il popolo desolato in un popolo sacerdotale, e consolandolo con la buona notizia lo renderà annunciatore di buone notizie per gli altri popoli. Medicando il cuore ferito dei fedeli e liberandoli da ogni schiavitù, li farà ministri della riconciliazione e della libertà. Trasformando i loro abiti a lutto con olio di letizia, farà sì che tutti li riconoscano come stirpe benedetta dal Signore.
E Gesù, nel passo di Luca, concentra in sé e fa sua questa speranza. Ne fa un evento del presente. Egli è la fonte costante di questa grazia sacerdotale, sempre disponibile a chi si decide a mettere nelle sue mani la sua fragilità, a chi crede che nell’oggi di Gesù si compiono la scrittura e ogni aspirazione umana.
Il Vangelo sia allora la nostra predicazione, la nostra catechesi, la nostra radice delle scelte quotidiane. Sia tutto fortemente, unicamente, inesorabilmente ancorato e basato sul Vangelo.
Ma la testimonianza è di tutti e per tutti. A ciascuno di voi, popolo di Dio che mi è stato affidato, sento di dire che il compito sacerdotale di Cristo non si è trasferito solo su un gruppo di persone ma su tutto il popolo di Dio: “Ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il nostro Dio e Padre”. L’intero popolo di Dio, ognuno di noi, deve sentirsi unto del Signore e chiamato ad annuncialo per le vie del mondo, a portare la sua speranza, la sua grazia, il suo amore.
Mi sento un viandante e accanto a voi voglio camminare, con la gioia nel cuore, verso la terra dei nostri sogni. E il sogno lo ha disegnato, a Firenze, Papa Francesco: “Mi piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà.” È questa la Chiesa che io sogno di abitare: una Chiesa dalle porte aperte a tutti, perché tutti abbiamo bisogno di lei. Una Chiesa dove non si celebrano solo i riti, ma dove si vive e si celebra la vita delle donne e degli uomini, intrisa di gioie e dolori. Una Chiesa in uscita, samaritana, libera, fedele al Vangelo. Una Chiesa povera. Una Chiesa sinodale, in ascolto dello Spirito Santo. Sogno, in questo momento, il cuore di una Chiesa madre che nel suo grembo genera, fa crescere, cura e fa sbocciare vita per la vita.
Desidero una Chiesa che lavi i piedi agli uomini e alle donne senza chiedere nulla in cambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare a Messa la domenica, o la quota di una vita morale meno indegna e più in linea con il Vangelo. Una Chiesa realmente prossima è una Chiesa aperta che abita lo spazio della prossimità nel modo dell’accoglienza scevra di previe garanzie.
Prima di decidere cosa fare c’è un tempo di ascolto, di comprensione della realtà. Dare tempo all’altro, darsi il tempo di incontrare l’altro. Il tempo del riconoscimento nella reciprocità. Non è il sentimento di un momento, ma il segno di ciò che già siamo diventati ed è ora il segno del futuro che desideriamo costruire. La prossimità non si insegna, la si riconosce, la si racconta, la si sperimenta.
Nell’amore l’umanità ancora ferita, deturpata, violentata, è trasfigurata.
Conosco sacerdoti e religiosi che sanno consegnarsi nel silenzio della gratuità, che fanno della vicinanza alla gente la ragione stessa della loro vita. Incontro tanti, impegnati nel sociale, che indossano ogni giorno il grembiule del servizio; operatori e operatrici pastorali che, nel nascondimento di un’esistenza apparentemente inutile, danno il loro tempo per accompagnare coscienze loro affidate.
È la Chiesa che non ha potere, una Chiesa che non conta, che non si difende, non si nasconde dietro falsi moralismi e strategie pastorali, ma riflette l’immagine della Chiesa comunione in continua ricerca delle coordinate conciliari che la rendono comunità che sa camminare e vuole camminare insieme, costi quel che costi! È la Chiesa del grembiule.
Questa Chiesa invoca una profezia: uscire fuori e gridare una parola che doni libertà e capacità di vicinanza vera, di compagnia autentica.
Ripartiamo davvero dal Vangelo: Gesù ha detto che la pietra scartata dai costruttori sarebbe divenuta testata d’angolo. Sento il bisogno di chiedere, a cominciare da me stesso: come mai abbiamo proclamato al mondo una Chiesa dei poveri ed i nostri poveri continuano a rimanere sull’uscio delle nostre chiese, senza entrare, senza trovare spazi? Forse perché sono rumorosi e non sanno parlare?
Anche i bambini attorno a Gesù erano rumorosi e gli apostoli cercavano di allontanarli, ma Egli li accolse. Anche il cieco urlava e tutti cercavano di zittirlo perché disturbava, ma Gesù, a quel grido, si fermò. Anche la prostituta disturbò la cena lavando con le sue lacrime i piedi di Gesù, ma con il suo modo di parlare e di agire Gesù ha capovolto tutti i canoni di un galateo che mette i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Anche il figlio maggiore di quel padre si lamentava perché lui era stato bravo, non aveva sprecato le sostanze, eppure la festa, le lacrime sul viso, il vitello grasso, il vestito più bello e le danze erano state riservate per l’incontro tra il padre e il figlio che era perduto.
Fratelli, sorelle, dire nelle celebrazioni che il Dio di Gesù Cristo è il Dio degli uomini, dei deboli, dei poveri, esige il coraggio della coerenza. Chiede la forza di ripetere le stesse cose fuori dal tempio, testimoni oculari del grande messaggio che lo Spirito ci dona e ci consegna: è il messaggio che ci invita a uscire allo scoperto, a uscire fuori dalle nostre prudenze e comode certezze.
Solo quando la fede esce dalle sacrestie, a servizio dell’uomo, nel nome del Vangelo, recuperando la grazia della chiarezza, senza sfumare le finali per paura del quieto vivere, è credibile.
Quando celebriamo l’Eucarestia facciamo memoria di Colui che è stato portato via dalla città, fuori le mura, insieme agli emarginati della società. Come potremmo essere cristiani, come potremmo vivere del pane eucaristico senza andare verso tutti coloro che sono espulsi, spinti ai margini? Ma anche verso coloro che si sono allontanati per sfiducia, per stanchezza, e per perdita di speranza? Senza abbattere le barriere che separano e creano gli esclusi, che alimentano la miseria, che creano i poveri? Ecco perché nella mia vita ho sempre sentito il servizio ai poveri, lo stare in mezzo a loro, e l’adorazione eucaristica come volti complementari di uno stesso significato. Quell’Ostia che adoriamo rimanda a quelle mani che bussano, e quel pane spezzato rinvia a quel bisogno di giustizia sociale che scuote il mondo. La nostra credibilità di cristiani non ce la giochiamo in base alle genuflessioni davanti all’ostensorio, ma in base all’attenzione che sapremo dare al “corpo e al sangue” dei giovani disoccupati, di chi fa fatica, di chi soffre, di chi si sente smarrito.
Sono gli ultimi che ci consegnano tra le mani il valore e la speranza della nostra vocazione missionaria! È agli ultimi che il Signore affida il sogno di una Chiesa fedele al Vangelo, che fa della condivisione il sale di ogni progetto pastorale, che non confida nelle strutture e nei programmi ma nella misericordia del Padre.
Non riesco a pensare al mio sacerdozio senza ricordare il volto di poveri, sofferenti, emarginati, che hanno convertito la mia vita dall’illusione di garanzie che non hanno nulla a che fare con il Vangelo di Gesù. Non riesco a pensare al Cristo senza il bene seminato nella mia storia da tanti laici, uomini e donne, e preti impegnati dalla parte degli ultimi. La presenza dei poveri in mezzo a noi non è frutto del caso ma conseguenza dello strutturarsi peccaminoso di relazioni. Le nostre comunità hanno bisogno di una presa di responsabilità condivisa: i poveri ci sono e dobbiamo chiederci perché continua ad accadere. La pandemia e questa guerra assurda stanno accentuando l’inconsistenza di un sistema malato che produce morte. Non possiamo più chiudere gli occhi, non possiamo più rimandare, dobbiamo scegliere quale stile di vita preferire. La nostra fede ci chiede onestà di sguardo. Una Chiesa che si desidera povera, sinodale, in stato permanente di missione, è chiamata a compromettersi con la vita, con il Signore, con le fatiche degli uomini e delle donne di questo tempo. Il discepolo di Gesù non fugge la povertà e i poveri: li sceglie. Questa cura radicale da vivere e da scegliere è il segno più vero dell’amore di Dio in noi. Siamo chiamati ad abitare la complessità di questo tempo.
Se accogliamo la speranza dei poveri e impegniamo la nostra vita ad ascoltarla e metterla in pratica, si rivelerà a noi e al mondo intero la giustizia di Dio. Convertire lo sguardo vuol dire riconoscere l’efficacia della vita del giusto, dei crocifissi della storia, quale lievito di cambiamento, annuncio della vita compiuta nel far vivere. Al povero spetta sempre il primo posto per giustizia. Il cammino è lungo perché si tratta di un cambiamento di prospettiva, di mentalità, di criterio.
I segni concreti di questo rinnovamento saranno il dialogo, il confronto, l’ascolto reciproco, l’andare incontro a tutti senza predeterminare situazioni e persone.
Siamo chiamati a vivere nell’orizzonte di un sogno, un sogno di Chiesa che sa liberarsi dalla tentazione della sopravvivenza. Un sogno di annuncio vissuto con fiducia e coraggio. Un sogno di formazione per essere più veri e credibili. Un sogno di testimonianza capace di sporcarsi le mani con la vita e le fatiche di ogni giorno. Allora è tempo di essere credenti inquieti, resi tali dal Vangelo, dall’incontro con il Signore, dall’urgenza che questo incontro fa nascere dentro ciascuno di noi…
C’è un testo bellissimo di Tonino Bello, una preghiera; è la preghiera dell’addio alla sua terra di origine e del viaggio verso un altro mare, quello di Molfetta che lo aspetta come vescovo. Don Tonino è solo, intorno a lui solo silenzio, che favorisce il silenzio dentro. La dimensione del silenzio è un esercizio per imparare a guardare oltre. Ma noi facciamo molta fatica a fare silenzio, forse per questo viviamo un tempo di sogni già consumati nel loro nascere, perché non hanno fondamenta. Ma solo altezze che durano il tempo di una stagione.
“Tricase è alle mie spalle. Davanti solo il mare: un mare senza vele e senza sogni. Domani, Signore, avrò la forza di pregarti per il mare, per questo mare di piombo che mette paura, per questo simbolo opaco del futuro che mi attende. (…) Ti chiedo solo tre cose. (…) Dai a questi miei amici e fratelli la forza di osare di più. La capacità di inventarsi. La gioia di prendere il largo. Il fremito di speranze nuove. Il bisogno di sicurezze li ha inchiodati a un mondo vecchio, che si dissolve, così come hai inchiodato me su questo scoglio, stasera, col fardello pesante di tanti ricordi. Dai ad essi, Signore, la volontà decisa di rompere gli ormeggi. Per liberarsi da soggezioni antiche e nuove. (…) Stimola in tutti, nei giovani in particolare, una creatività più fresca, una fantasia più liberante, e la gioia turbinosa dell’iniziativa che li ponga al riparo da ogni prostituzione.”
Richieste che sono degli auguri che potrebbero sembrare di circostanza se non fossero seguite dalla fotografia impietosa che don Tonino traccia della comunità che lascia. I poveri. I malati, i vecchi, gli esclusi. Per chi ha fame e non ha pane. Ma anche per chi ha pane e non ha fame. Per chi si vede sorpassare da tutti. Per gli sfrattati, gli alcolizzati, le prostitute. Per chi è solo. Per chi è stanco. Per chi ha ammainato le vele. Per chi nasconde sotto il coperchio di un sorriso cisterne di dolore.
Da questo passaggio, mi domando quanto noi conosciamo la nostra realtà e la situazione nella quale siamo. L’immagine poetica: chi nasconde sotto il coperchio di un sorriso cisterne di dolore è una metafora vera che dice di una sensibilità che coglie la prossimità con delicatezza. Che non vede la fotografia per giudicarla, ma per cogliere le sfumature, il fermo immagine che mette insieme tutti i particolari. In questa preghiera, in una notte dove il mare è senza vele e senza sogni, basta la luce di una lampara vista in lontananza a dare slancio e far dire: “Adesso, basta, o Signore: non ti voglio stancare, è già scesa la notte. Ma laggiù, sul mare, ancora senza vele e senza sogni, si è accesa una lampara.”
Che cogliamo in quel dire “basta”? Quale postura abbiamo? La postura non del ripiegamento, ma quella dell’affidarsi al barlume di una luce che si coglie da lontano per intraprendere il viaggio. Rompere gli ormeggi che ci fanno stare in acqua, ma ben ancorati alla terraferma. Siamo spesso in questa nostra dimensione di ambivalenza. Timorosi di osare. Che è un segno di invecchiamento. La postura è quello che ci dice il termometro della nostra audacia, della nostra dismissione dai sogni. Ma come si coltiva la dimensione del sogno? È una domanda che ci prende soprattutto quando facciamo i conti con la stanchezza che talvolta vince. Facendo vuoto di potere e riempendolo di azioni che possono generare comunità. Mi spiego: c’è nella Chiesa un immaginare se stessa per conservazione e riproducibilità di ruoli e azioni. La certezza dell’esistente diventa a volte l’unica e la sola condizione per autodeterminarsi. Ma occorre il coraggio di fare vuoto di potere per generare il servizio. Cambiare i simboli. Oltre la mitra, il pastorale, l’anello, anche il catino, la brocca e l’asciugatoio che nella Chiesa sono simboli antichi, precedenti agli altri simboli.
Perché non si sprigiona il sogno inventando, ma andando alle radici e ridando ai simboli il loro valore di senso. Le ferite nelle quali incarnare parole e gesti di speranza non sono occasionali e marginali, ma sono strutturali. Il vuoto che i simboli del potere hanno generato nelle comunità ancorate a riti svuotati di senso ha bisogno di nuovi simboli che dicano pratiche di comunità vive. Non è la stessa cosa parlare di giustizia dall’alto delle nostre sicurezze sociali ed economiche o farlo quando invece si vivono situazioni di precarietà, di sofferenza, di povertà.
Quando è inverno, quando non hai nulla da mangiare, quando non sai come ripararti dal freddo, quando non dormi, e ti trovi schiacciato, etichettato e evitato da tutti, allora capisci che è tutta un’altra cosa parlare di giustizia, dignità e diritti se ne sei privato. Così come non è la stessa cosa pregare nel sicuro del tempio: Signore, Signore, lontano dalla quotidianità di chi fa fatica, distante dalla storia delle persone e al sicuro dalle fragilità, dalla povertà, e dalla miseria che possono piegare l’esistenza.
Dobbiamo educarci a leggere i bisogni come diritti disattesi, ad imparare a rendere ogni povertà trasparente del suo diritto negato.
Lo Spirito del Signore è su di me (…). Questa Parola oggi si compie anche per noi. Anche per te povero, escluso, abbandonato, solo, affamato, oppresso. Anche tu ascolta, gioisci! Questa Parola si compie in te e per te! Non chiuderti, non nasconderti, non vergognarti, non disperare! Tu, con la tua presenza, con il tuo rialzarti, con la tua dignità di fratello puoi annunciare al mondo che il Signore ama, si prende cura di tutti, non abbandona nessuno. Tu, con la tua capacità di leggere la storia dalla parte di Dio, puoi guardare con tenerezza tanti che si sentono abbandonati e che hanno perso il senso della giustizia.
Tu puoi insegnarmi ad amare. Tu puoi insegnarmi a condividere la vita. Tu puoi insegnarmi a rialzare. Tu puoi insegnarmi la speranza. Tu puoi indicarmi il futuro. Tu puoi ricordarmi che resta l’amore.
La comunione è dono che chiede di essere accolto responsabilmente. Siamo chiamati a costruire fraternità, a riedificare le antiche rovine e le città desolate. L’opzione preferenziale per i poveri, l’attenzione agli ultimi, diventi nostro stile di vita, stile e reale desiderio di prossimità, perché l’altro, il povero, diventi fratello. La conversione alla comunione fraterna è un cammino continuo nella libertà.
Carissimi tutti, è giunto il momento di dare tutta la nostra disponibilità perché le nostre comunità possano ridisegnare il volto di una Chiesa che vive radicata in questo tempo, in questo territorio, capace di abbracciare la condizione, le speranze, le difficoltà, di tutti i suoi figli. Siete voi il suo sguardo missionario, come rami innestati nella vera vite che è il Signore Gesù, siete chiamati a portare frutti di carità, di speranza, di annuncio, ovunque. Il Signore stesso opera con noi, non siamo soli. Ci chiama e ci manda. Senza dimenticare mai che l’opera di Dio è più grande di noi e ci precede sempre.
Ci sentiamo in comunione con tutta la Chiesa che sta vivendo la sinodalità come programma fondamentale, obiettivo e fine del rinnovamento pastorale.
La cura della personale spiritualità, dello stare davanti al Signore, sarà la vera forza del rinnovamento.
Abbiamo bisogno di radicare il nostro sguardo nello sguardo del Signore. Vivere la comunione con Dio e con i fratelli come dono significa assumere la sinodalità come stile. La comunione chiama a costruire processi di fraternità.
Il cammino della Chiesa sinodale si concretizza, allora, nell’essere Chiesa che intercetta, che va incontro alle fragilità e alle singole storie. Una Chiesa che non ha paura di percorrere le strade difficili e più strette, che sa gioire e condividere, commuoversi e meravigliarsi. Una Chiesa, più che assertiva, discepola della fragilità. Una Chiesa ferita è una Chiesa capace di ascolto, di stare in piedi. Non la Chiesa che giudica o la fa da padrone sulla fede degli altri ma la Chiesa della compassione, la Chiesa che serve perché entra nelle case, non parla da fuori. Da come parla, soprattutto dei lontani, dei cosiddetti lontani, capisci se una Chiesa li conosce o no.
Chiesa sorella che conosce l’arte di rallentare il passo e porta nel suo cuore la fatica dell’ultima pecora, quella gravida e quella ferita.
Perciò, crediamo in una Chiesa che abbraccia tutti, dove ognuno possa trovare riparo, dove ognuno possa sentirsi accolto, compreso, amato. Crediamo in una Chiesa attenta. Attenta alla diversità delle lingue, delle culture, dei carismi, che sono nulla senza la carità, ai tempi che cambiano, a qualsiasi tipo di segno. Abbiamo bisogno di fatti, di orme che traccino un cammino, che segnino un sentiero; di un sogno che dia speranza a tutte quelle persone che, curvate, portano sulle proprie spalle croci che si fanno ogni giorno più pesanti, dove tutto ciò che rimane è il dolore che lacera dentro. E allora, la Chiesa può sognare anche per loro, deve mettersi accanto e condividere il peso della sofferenza e della solitudine annunciando quanto di bello il Vangelo dice. Contagiati dal Vangelo, contagiati dalla vita.
Impariamo ad essere attenti all’altro, ad ognuno e ciascuno, a valorizzare ogni singolo talento. Una Chiesa che valorizza è una Chiesa che si arricchisce, non di tesori ma di carità. Una Chiesa che si fa icona di servizio, che si lascia ispirare e che è aperta, sempre aperta, per essere e fare esperienza di vera evangelizzazione. E allora, Chiesa di Napoli, sogna. Sorridi, abbraccia, accarezza. Sii strumento di incontro. Sii l’ala di riserva di ciascuno.
Coraggio! Alzati, ti chiama… e ascolta. Ascolta tutti. E fallo soprattutto sulla strada. Ho sempre pensato che parlare di strada equivalga a parlare di vita. La strada è il luogo dell’incontro tra Dio e l’umanità, tra gli uomini e le donne, il punto in cui cielo e terra si toccano. Nel Vangelo, la strada è lo spazio della manifestazione del risorto (si pensi alla strada di Emmaus) e quasi tutti gli incontri di Gesù accadono sulla strada (Bartimeo, la samaritana, l’emorroissa, Matteo, Zaccheo…). Tutto avviene fuori dal recinto del tempio, con il linguaggio di chi vive sulla strada. Quante volte, invece, noi restiamo chiusi nel nostro tempio, a parlare dal pulpito delle nostre convinzioni senza metterci realmente accanto all’altro, senza creare quella relazione orizzontale di cui Gesù stesso è maestro e testimone.
Sentirai che ogni storia è intrisa di speranze, di sogni, di desideri e tu puoi essere segno della tenerezza di Dio, perché è Dio che si ferma accanto ad ogni uomo e a ogni donna e li cerca in tutta la loro bellezza, anche e soprattutto quando è attraversata da ferite. Il Signore non abbandona mai e vive con noi, dentro ogni condizione umana. Portare la sua carezza, questo ci è chiesto. Portare la sua presenza lì dove già lui è presente. Una carezza che infonda coraggio a chi vive nella paura. Una carezza che doni speranza a chi è avvolto nell’ombra della delusione e della rassegnazione. Una carezza che indichi la via a chi è smarrito. Una carezza che rianimi la forza in chi è stanco e scoraggiato. Una carezza che faccia sentire meno solo il fratello abbandonato ed emarginato. Una carezza che riempia di Presenza il nostro presente.
Una Chiesa che così annuncia il Risorto: non possiamo vivere senza il Signore, non possiamo vivere senza i fratelli! È la Chiesa che sa fermarsi ed aspettare, perché nessuno resti indietro. È la Chiesa che sperimenta l’umanissimo travaglio della perplessità, della preoccupazione, e condivide con tutti la più lancinante delle sofferenze, l’insicurezza. Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e per il resto debole, fragile, bisognosa di tutto. È la Chiesa del Vangelo.
Lo Spirito possa ispirare i passi concreti, l’esigenza di una condivisione reale, di una maggiore unità; possa infondere entusiasmo e senso di corresponsabilità; possa infondere la passione e il gusto della formazione; possa infondere l’ardore della carità, nel cercare Dio e nel cercare i fratelli.
Affidiamo questo Sinodo al Signore della vita! Affidiamogli gli appuntamenti, l’attesa di ritrovarci insieme, sapendo che Lui stesso ci attende per fare piena la nostra gioia.
Affidiamo al Signore della storia questo tempo che si apre, perché ne possiamo riconoscere la grazia. Trasformiamolo in Kairos, in tempo favorevole, perché la condivisione di un progetto diventi condivisione di senso, di vita, di salvezza donata.
Affidiamogli il nostro rispondere insieme, la nostra disponibilità, perché rinascano sempre nuovamente dalla gratitudine per la Sua presenza sanante, per il Suo passare libero e gratuito, per il Suo chiamarci a stare e a camminare con Lui.
A Maria, che ha fatto dell’attesa il suo sì, grembo per Dio e per tutti i suoi figli, chiediamo di custodire in noi l’ascolto, la cura, il desiderio, il sogno di Dio. Lei, che è beata perché ha amato, sperato, creduto, doni al nostro cuore la capacità di infinito.
Il Signore infonda in noi la gioia del nuovo inizio, la pazienza dei piccoli passi, il coraggio di osare, uno sguardo profetico che sappia riconoscere i segni del Regno presente e la speranza promessa!
Dio vi benedica! Benedica il nostro cammino!”