“Cari amici, figli, fratelli,
sono felice di essere qui oggi, per condividere un pezzo di cammino interiore, per arricchirmi del vostro ascolto e della vostra parola, per potervi guardare insieme, come unico presbiterio della nostra Chiesa, e dirvi “grazie”.
È con questa gratitudine che nutro per ciascuno di voi che vorrei iniziare questo nostro incontro. Gratitudine per ciò che siete, per ciò che fate, spesso andando controcorrente e pagando il prezzo di una grande solitudine. Gratitudine perché so quanto costa il donarsi e so quanto è frustrante farlo in realtà che apparentemente non sanno più cosa farsene della nostra donazione, del nostro spenderci con generosità, del tesoro spirituale che vogliamo condividere, dell’annuncio liberatorio e sanante del Vangelo. Si, vi sono grato perché andate oltre le apparenti chiusure della gente, scorgendo in profondità la loro sete di salvezza, il bisogno di guarigione e liberazione insito nei cuori di quanti vi sono affidati. E, infine, vi sono grato perché siete fragili, proprio come me, e mi fate sentire per questo meno solo, insegnandomi, con il vostro si quotidiano, a trasformare la fragilità non in un limite che fa tirare i remi in barca ma in uno strumento di comprensione del mondo, degli altri, in una ferita che diventa feritoia attraverso cui ascoltare e parlare al cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo, soprattutto di chi è ultimo e rischia di restare fuori, ai margini della comunità.
Sapete, preparando il nostro incontro, nell’accostarmi al tema pensato per oggi e leggendo il sottotitolo “tra Gesù e la gente” mi è venuto in mente uno dei tanti soggiorni ad Assisi, quando giovanissimo prete incontrai un anziano frate che con gli occhi innamorati sintetizzava così l’esperienza del Poverello: Francesco più si ritirava nel silenzio e nell’ascolto di Dio, più si sentiva inviato alla gente… più stava tra la gente, nel cuore della folla, più si sentiva chiamato da Dio a tornare al silenzio e all’ascolto. La sua vita è stata questo continuo andirivieni. Ecco, penso che quanto questo frate ha detto di Francesco, valga in realtà per ogni discepolo, per ogni uomo e ogni donna che prende sul serio la sequela di Gesù di Nazareth e ancor di più vale per coloro – come noi – che hanno scelto non solo di seguirlo ma di aiutare altri a farlo, diventando fratelli maggiori, servi della comunità, pastori del gregge variegato e prezioso di Dio.
In fondo questa è stata l’esperienza dei primi discepoli, esperienza di amicizia e frequentazione quotidiana del Maestro, esperienza di invio per la missione a cui da Lui erano destinati. Per questo oggi vorrei fermarmi con voi su tre movimenti, tre dinamismi, tre passi che il Vangelo ci propone: riposare con Gesù, lavorare per la gente, donare se stessi.
Riposare con Gesù
“Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto” (Mc 6,30). È un piccolo versetto ma ci consente di intuire e immaginare molto di più. Chissà infatti quante volte questa scena si è ripetuta durante il tratto di strada e di amicizia percorso da Gesù con i suoi discepoli. Dopo essere stai inviati da Lui, tornano a Lui, dopo aver lavorato per il Regno, dopo aver speso il loro tempo a “curare le malattie”, a “guarire gli infermi” (cf. Lc 9,1-10), a narrare la loro esperienza di quel Maestro buono le cui parole e il cui sguardo avevano rivoluzionato loro la vita, consentendole di cambiare rotta, scommettendo ogni cosa su quel sogno di “cieli nuovi e terre nuove” che nella relazione con Lui potevano già essere toccate con un dito, sperimentate in questa vita.
E, senza esagerare, possiamo immaginare il loro ritorno a casa, dove la casa non era un edificio o un luogo, ma una persona, Lui, Gesù, pronto ogni volta ad ascoltarli e a tenerli con sé, “loro soli”, senza distrazioni e ulteriori affaticamenti. Forse, se chiudiamo gli occhi nella preghiera, affidandoci alla Parola, possiamo riuscire anche a vederli: amici che gioiscono nel ritrovarsi, uomini stanchi ma felici, afferrati dall’entusiasmo di raccontare la loro esperienza, magari accavallandosi alle parole altrui come accade quando ci si incontra e non si vede l’ora di condividere ciò che si è visto, sentito, toccato.
E in quest’esercizio di immaginazione orante, possiamo così incontrare Tommaso che esprime tutta la sua meraviglia per aver visto dei paralitici camminare, degli infermi guarire mentre annunciava la salvezza che nasce dall’aver incontrato Gesù. Così racconta lo stupore della gente che osservava ma anche il suo stupore dinanzi a quanto accadeva, nella consapevolezza che il Maestro stava diventando per lui il tutto della sua vita, quel “tutto per cui si è disposti a tutto” perfino a morire (cf. Gv 11,16).
E, proseguendo nella preghiera, troviamo Giovanni, il discepolo amato, a cui piaceva definirsi così tale era il trasporto che avvertiva dentro verso il suo Signore e Maestro, da cui si sentiva amato come se non ci fossero altri all’infuori di lui. Si, Giovanni sapeva che questo non era altro e non è altro che il modo di amare di Dio, di Gesù, ma non rinunciava a narrare agli altri quell’amore incondizionato e folle, così folle da sembrare esclusivo, amore da cui si sentiva avvolto nell’intimo. E. afferrato dall’entusiasmo, Giovanni, racconta delle facce incuriosite degli ascoltatori quando ha raccontato del suo primo incontro con il Rabbi, descrivendolo come un momento che cambia la vita e che non può che incidersi in eterno nella memoria del cuore, fino a non dimenticare mai più né il giorno né l’ora (cf. Gv 1,39).
E poi vediamo suo fratello Giacomo, che racconta agli altri del suo imbarazzo mentre spiegava a coloro che incontrava dello stile di Gesù, così diverso dallo stile degli altri maestri, così lontano dalla logica del potere, del dominio, del successo. E spiega agli altri come, per annunciare questa novità, raccontava a chi incontrava di quando si sono visti rimproverare dal Maestro per una richiesta fuori posto, fattagli addirittura per bocca della loro mamma, di ambire a posti riservati vicino a Lui (cf. Mt 20,21). Una richiesta così lontana dal modo di pensare comune, dove si viene giudicati per i titoli e il livello gerarchico, per la posizione e il potere che si detiene, mentre per Gesù è tutto diverso, tutto più semplice: “chi vuole diventare grande deve farsi servo, e chi vuole essere il primo deve farsi ultimo” (Mt 20, 26-28).
E come non soffermarci con gli occhi della contemplazione su Matteo, così profondamente cambiato, era seduto “al banco delle imposte” (Mt 9,9) ma ora è attorno ad un fuoco, insieme a Gesù e ai suoi nuovi fratelli. Lui ha annunciato a tutti coloro che ha incontrato durante la predicazione la bellezza sconvolgente e la forza di quel “seguimi” (Mt 9,9) che gli aveva rivoltato la vita dal di dentro, immergendola in un mare di tenerezza e misericordia senza limiti, e di come tuffandosi in quel mare ne era uscito nuovo, rigenerato, finalmente amato e capace di lasciare tutto per l’unica cosa essenziale: l’amore del suo Signore! E a chi non credeva alla verità del suo annuncio, perché ancora trincerato in un’immagine di Dio somigliante più ad un giudice castigatore che ad un amico salvatore, lui raccontava della sua esperienza, di quella di Zaccheo, di come Gesù si rivolgeva con amore anche a “pubblicani e peccatori” (cf. Mt 9,1-10), perché secondo Lui “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Mt 9,12).
Potremmo continuare la nostra preghiera soffermandoci su tutto il gruppo dei discepoli, guardando il loro entusiasmo, la loro meraviglia e, in alcuni casi, la loro frustrazione, la loro stanchezza, la fatica fisica come quella interiore. E potremmo chiederci in chi o in cosa ci identifichiamo, guardandoci dentro, chiedendoci quali sono le nostre stanchezze e le nostre gioie in questo momento della nostra vita, in questo tratto concreto del nostro servizio.
Si, fratelli miei, prima e dopo il “lavoro” – lavoro tra virgolette, inteso non come mestiere o professione ma come servizio alla nostra gente, per amore del Vangelo, impegno concreto fatto di fatica e passione – dobbiamo imparare a rivolgerci a Lui, al nostro Maestro e Signore, raccontandogli tutto ciò che abbiamo vissuto, tutto ciò che ha attraversato il cuore: i volti che abbiamo incontrato, le lacrime che abbiamo asciugato, le parole che abbiamo accolto e quelle che abbiamo donato, le porte che ci sono state aperte e quelle che a causa delle incomprensioni ci sono state chiuse. Tutto, ombre e luci, ansie e speranza; ogni cosa, amici presbiteri, va raccontata al Maestro e, dopo avergli donato tutto ciò che alberga nella nostra anima, siamo chiamati ad imparare l’arte del silenzio, dell’ascolto, per accogliere nel nostro intimo quanto Lui ha da dirci, da donarci. Per questo con l’immaginazione spirituale che vi ho portato a contemplare i discepoli riuniti, magari di sera, intorno ad un fuoco, scaldati non solo dal calore delle fiamme ma dallo sguardo premuroso del Signore Gesù. Non dimenticate anche di giungere alla soglia delle sue labbra, sull’uscio dei suoi occhi, per ascoltare ciò che ha da dirvi, per lasciarvi consolare dal suo sguardo paterno e materno, per consentirgli di sussurrarvi parole di amore e di tenerezza, di consegnarvi parole di correzione e di consiglio, di donarvi quella parola capace di aggiungere vita alla vostra vita, speranza e fiducia al vostro cammino.
Lavorare per la gente
Fratelli miei, prima non a caso usavo il termine “lavoro”. Sapete, a volte un esercizio che faccio – nella scia di don Tonino che spesso suggeriva l’importanza e l’urgenza di riappropriarsi del significato autentico e profondo delle parole – è quella di tornare al vocabolario, soprattutto quando mi rendo conto che un termine viene inflazionato, che un un’espressione lessicale viene usata con superficialità. Eppure le parole costituiscono non solo il veicolo della nostra comunicazione sociale ma anche la cornice attraverso cui comprendiamo il nostro mondo interiore, attraverso cui comunichiamo con noi stessi, con il nostro intimo. Così, andandomi a rileggere il significato di questo termine in un comune dizionario, ho trovato questa definizione di “lavoro”: In senso lato, qualsiasi esplicazione di energia volta a un fine determinato. In senso più ristretto, attività umana rivolta alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale. È certamente una definizione chiara anche se magari al nostro orecchio “spirituale” può risultare un po’ asettica, fredda. Ma, pensateci bene, non abbiamo forse tutti bisogno di comprendere sempre più e sempre meglio l’importanza del “lavorare” per la gente? La parola di Paolo nella sua seconda lettera ai Tessalonicesi, al capitolo 3 non è forse rivolta anche noi? Ricordiamola un attimo insieme: “Noi non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi”. Paolo sta dicendo alla comunità di Tessalonica e dice anche oggi a noi, così presi e afferrati dal servizio dell’apostolato, che il nostro operare per il Regno e per l’edificazione della comunità è un vero e proprio lavoro e, se le circostanze storiche e la totalità dell’impegno non consentono di lavorare per il proprio sostentamento, è unicamente perché il nostro lavoro è totalmente assorbito dal servizio del Regno! Tornando – quasi come esercizio – alla definizione di lavoro la nostra energia interiore è finalizzata a un determinato e chiaro obbiettivo: l’annuncio del Vangelo, che è al contempo servizio alla comunità e lavoro per il bene dell’uomo, soprattutto dell’uomo ferito, marginale, escluso. Il bene e la ricchezza che “produciamo” non è qualcosa di quantificabile in monete e beni materiali ma è piuttosto la capacità di compromettere la nostra vita con la vita degli altri, facendo in modo che essa possa fiorire in modo sano, mettendo radici nel terreno fertile della Parola, fino a germogliare nella vita dello Spirito, di quello Spirito invisibile e silenzioso che lavora con discrezione nella storia. La storia minima, discreta, storia di donne e uomini che cercano un significato alla loro esistenza, un senso al loro cammino, una parola di salvezza capace di riempire il vuoto che li abita e strapparli al buio di una vita non fondata sull’amore, sulla giustizia, sulla pace.
Ebbene, questa è la storia anche del nostro “lavoro”, del lavoro, quotidiano, instancabile di tanti preti che in questo cambiamento d’epoca – pur con la fatica di chi cerca di orientarsi in contesti continuamente mutevoli – provano ad essere per la gente avamposti credibili di senso e di significato, sorgenti limpide e autorevoli di una Parola altra, non posseduta ma condivisa e donata perché proveniente da un Altro. Preti che, dinanzi agli apparenti fallimenti pastorali, non tirano i remi in barca ma continuano a mettersi in gioco, nonostante il dispiacere e la frustrazione. Fratelli miei, quanto è importante il nostro lavoro, quanto preziosa la nostra fatica, quanto benedetta la nostra stanchezza. Si, perché non c’è lavoro che non conosce stanchezza. E tante volte nei nostri dialoghi personali e comunitari questa stanchezza emerge, e a volte la percepiamo come un fardello di cui vorremmo liberarci. Dimenticando una realtà fondamentale: esiste una stanchezza buona, necessaria al cuore e alla vita, una stanchezza che ci dice che stiamo andando nella direzione giusta. Qualche anno fa Papa Francesco ce ne parlò in un’omelia della Messa Crismale e oggi vorrei richiamare alla mente e al cuore le sue parole: C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfrEvangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. È la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).
Fratelli miei, conosco le vostre stanchezze e so che la maggior parte di esse sono benedette, perché frutto del vostro lavoro appassionato, lavoro di pastori con odore di pecore e sorriso di padre. Stanchezze frutto di un lavoro che a volte definire solo pastorale è limitante perché in tante delle nostre realtà e territori siamo chiamati a fare anche altro dalla “pastorale in senso stretto”, a sostituire istituzioni assenti, a essere gli unici luoghi di ascolto, fortezze di legalità e giustizia, luoghi di solidarietà oltre misura, luoghi in cui si aiuta una porzione di umanità sbandata e sofferente a rimettersi in piedi, con coraggio, contando sulla forza dell’amore e sul valore della solidarietà.
Altre stanchezze: Noi, non sempre siamo capaci di contemplare le “fatiche del Signore”. Il Signore si è affaticato, e in questa fatica trovano posto tante stanchezze della nostra gente. Ma trovano posto anche le nostre fatiche; la tua, la mia stanchezza: penso al tuo donarti quotidiano e al peso che a volte senti perché non c’è alcun riconoscimento o sostegno; penso ancora a quella stanchezza e allo scoraggiamento in rapporto alla missione. C’è poi il peso della strada percorsa che si fa sentire nelle gambe e soprattutto dentro … il peso degli incidenti di viaggio, il peso delle delusioni, delle incomprensioni, il peso dei fallimenti, il peso, a volte, di certe persone … il peso di un ambiente inadeguato, il peso dell’ingiustizia, dell’ipocrisia e della falsità. Il peso della sfiducia.
Tutto ciò e altro ancora, si accumula, e più che schiacciarti ti intorpidisce, ti appanna la vista, ti svuota della tua sostanza, ti prosciuga le energie. Ti ritrovi come spento. Ti fa male. E dentro, come un continuo tormento, tuonano parole: “Basta così. Non vale la pena. Non è il caso di insistere. C’è ancora un senso a tutto ciò? Che cosa si guadagna a parlar chiaro? Non vale la pena lottare. Meglio mettersi tranquilli. Non ce la faccio più. Sono rimasto solo. Si è scavato il vuoto attorno a me. E si è scavato il vuoto (un abisso) dentro di me.” E gridi dentro di te, ma, il più delle volte, è un grido silenzioso.
Quante volte abbiamo vissuto questi momenti!?! E chissà quante altre volte li vivremo ancora ….
Allora vai alla ricerca di un pozzo che possa placare e saziare la sete e la stanchezza; un pozzo, magari da cui ripartire. Ma non sempre hai voglia di cercare quel pozzo. Perché causa di molta stanchezza è la fraternità ferita. È per questo che invito sempre alla comunione, a dare valore alla fraternità sacerdotale, sincera, leale, autentica. Per questo sono importanti i nostri incontri di fraternità. E ne abbiamo bisogno come il pane. Perché la fraternità vera è grazia. La comunione è un dono di Dio, e dobbiamo chiederla ogni giorno, ma credendoci. Ne va della nostra credibilità.
Ma, c’è una stanchezza particolare che preoccupa e mi provoca: la stanchezza della speranza. Quella stanchezza che nasce quando – come nel vangelo – i raggi del sole cadono a piombo e rendono le ore insopportabili, e lo fanno con un’intensità tale da non permettere di avanzare o di guardare avanti. Come se tutto diventasse davvero inutile. È quella che scaturisce quando la realtà “prende a schiaffi” e mette in dubbio le forze. È una stanchezza paralizzante. Nasce dal guardare avanti e non sapere come reagire di fronte all’intensità e all’incertezza dei cambiamenti che come società stiamo attraversando. E affiora un dubbio terribile, un sospetto inculcato dal “tentatore”: “ti sei fidato di lui e adesso ti ha mollato, non è più dalla tua parte. Ma non ti accorgi di essere fuori dal mondo quando esprimi certi valori? Non ti accorgi che ciò che dici non interessa a nessuno?” Come ci si sente quando ti accorgi che stai parlando a persone che ti ascoltano nella più totale indifferenza? Prova a rispondere nel tuo cuore. Io ti dico che è la peggiore delle eresie: pensare che il Signore e le nostre comunità non hanno nulla da dire né da dare a questo nuovo mondo.
E quel sospetto diventa disagio .. che non permette di riconoscere più la prova, ogni prova, come grazia.
Fratello mio, le fatiche del viaggio arrivano e si fanno sentire. Ci sono, e non possiamo negarle ..ed è bene avere lo stesso coraggio che ebbe il Maestro nel dire: «Dammi da bere». Come accadde alla Samaritana e può accadere ad ognuno di noi, non vogliamo placare la sete con acqua qualsiasi, ma con quella «sorgente che zampilla per la vita eterna. Sappiamo, come sapeva bene la Samaritana che portava da anni i recipienti vuoti di amori falliti, che non qualsiasi parola può aiutare a recuperare le forze e la profezia. Non qualsiasi novità, per quanto affascinante possa apparire, può attenuare la sete. Ecco: “Dammi da bere” è quello che chiede il Signore, ed è quello che chiede a noi di dire. Con umiltà.
E nel dirlo, fratello mio, apriamo la porta della nostra stanca speranza per tornare senza paura al pozzo sorgivo del primo amore, quando Gesù è passato per la nostra strada, ci ha guardato con generosità, ci ha chiesto di seguirlo; nel dirlo, recuperiamo la memoria di quel momento in cui i suoi occhi hanno incrociato i nostri, il momento in cui ci ha fatto sentire che ci amava. Significa ritornare sui nostri passi, per fare memoria del passaggio salvifico di Dio nella nostra vita. E, ancora di più, diventa capacità di far credito alla fiducia, alla speranza che, come ha fatto ieri, così continuerà a fare domani! Il Signore è fedele, sempre! La sua fedeltà è la nostra roccia. La speranza stanca potrà guarire ritornando al luogo del primo amore e riuscirà ad incontrare, ad incrociare, nelle periferie e nelle sfide di oggi, lo sguardo del Cristo che continua a cercarci, a chiamarci e ci invita a prendere il largo. Si, continua a cercarci. A chiamarci. A prendere il largo. Oggi. Unico Signore della nostra vita.
A voi vorrei dire grazie invitandovi però a restare vigili, affinché la stanchezza non abbia la meglio ricordandovi ciò che San Carlo Borromeo ci ha detto qualche giorno fa attraverso l’Ufficio delle Letture della sua memoria: “Non trascurare la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso”. Ecco, credo che questo monito pastorale debba essere ben chiaro al nostro cuore non tanto per ridurre il lavoro senza criterio e autoassolvere qualche pigrizia, ma piuttosto per non dimenticarci la necessità di ritrovarci nel riposo con noi stessi, tra noi, come fratelli e amici, e con il Maestro, intorno al fuoco serale, per ascoltare le sue parole capaci di far tornare nel cuore il sereno e ritemprare ogni stanchezza. Quando non siamo capaci di questa vigilanza, di questa igiene interiore, il burnout, l’esplosione, l’esaurimento sono dietro l’angolo. E quando busseranno alla porta sarà difficile continuare il lavoro per il Regno! Fratelli presbiteri dobbiamo lavorare con tutto noi stessi ma anche riposare con tutto noi stessi. Se volete lavorare per il Regno dovete anche riposare per il Regno. Se lavori per il Signore, devi anche imparare a riposare con Lui, per Lui, in Lui. Perché quando questo non avviene la tentazione dell’egoismo, il desiderio di mollare, di non curarsi più della gente che ci è affidata, prende il sopravvento.
Donare noi stessi
E, quando prende il sopravvento, rischiamo di avere le stesse reazioni dei discepoli dinanzi alle pressioni della folla, un atteggiamento di difesa, individualistico se non addirittura egoistico. Pensiamo all’episodio della condivisione dei pani e dei pesci così come ce lo narra Marco al capitolo 6. La scena inizia con la compassione che afferra il cuore di Gesù alla vista della folla.
La grande folla è formata dagli uomini e dalle donne che da tutti i villaggi (6,33) si erano messi in cammino per incontrare Gesù e il gruppo dei suoi discepoli. Gesù è profondamente toccato dal fatto che le persone che gli venivano incontro erano come pecore che non hanno pastore, abbandonate da coloro che avrebbero dovuto guidarle, accompagnarle e da cui avrebbero dovuto essere custodite.
Gesù, non riesce a fare marcia indietro dinanzi a questa folla disorientata e stanca e ha ben chiaro che è volontà del Padre che lui le nutra, ridestando la loro energia di vita, rimettendole in piedi! Così inizia loro ad insegnare. E così parla loro apertamente, annunciando il Regno, donando orientamento e correzione, consigli e insegnamenti di vita, tratteggiando in questo modo il volto autentico di Dio, un Dio coinvolto nella vita dei suoi figli e delle sue figlie, un Dio non lontano ma vicino, un Dio che non si lascia ingannare dalle apparenze e dalle formalità ma che guarda dritto al cuore e alla sostanza del vivere! Dinanzi al prolungarsi del suo insegnamento e dell’ora sopraggiunta, i discepoli, però, interrompono Gesù, spiegando che il luogo è una landa solitaria, un deserto, ed è già tardi, è ora di finire l’insegnamento e di mettersi a mangiare. Non dimentichiamo che nel simbolismo del Primo Testamento il cibo, il pane, non è solo il pane materiale ma anche la parola di vita! I discepoli chiedono a Gesù che smetta di insegnare, di dare il suo pane, cioè il suo insegnamento affinché la gente vada in luoghi più popolati a cercare un altro pane, quello materiale; ma per Gesù entrambi i pani sono inseparabili. Attenzione, forse afferrati dalla stanchezza non sono più capaci di guardare oltre se stessi e così non chiedono a Gesù cosa conviene fare in questa situazione, perché hanno già in tasca una soluzione: rimandarli a casa, via, lontano. La loro è una soluzione individualistica perché ognuno deve provvedere al “suo” pane ed egoistica, perché loro hanno qualcosa da mangiare.
Ma Gesù risponde loro spiazzandoli: “Date loro voi stessi da mangiare”. Mentre i discepoli affermano la necessità di congedare la folla, Gesù fa un’inattesa, spiazzante, rivoluzionaria controproposta: devono occuparsi della folla, non possono disinteressarsi di essa, e devono farlo a partire non solo da ciò che hanno ma anche da ciò che sono, da loro stessi.
Il “dare” a cui Gesù li invita è ben diverso dal “comprare”: il “comprare” comporta una logica di do ut des, di scambio economico, il “dare” invece implica solidarietà e generosità, slancio gratuito verso l’altro, risposta autentica all’appello del suo volto. “Dare” significa offrire e condividere, senza chiedere nulla in cambio, neanche la gratitudine. “Dare sé stessi” così assume un doppio significato in quanto rimanda i discepoli non solo alla necessità di donare condividendo ciò che hanno, ma anche all’importanza di farlo attraverso il dono generoso di ciò che si è, senza farsi troppi conti in tasca… e neanche nel cuore. Donare l’esistenza è il significato più profondo di questo monito di Gesù, farsi cibo e non solo dare del cibo è l’invito che lui fa ai discepoli e a tutti coloro che si mettono alla sua sequela.
Invito che giunge a noi, quest’oggi, incontrandoci come siamo, a partire da ciò che siamo.
Nessuno cerchi scuse: sei fragile? Donati con la tua fragilità e per l’altro diverrà forza. Sei ferito? Donati con la tua ferita e vedrai che anche per te, non solo per l’altro, si tramuterà in guarigione. Hai poco? Dona quel poco che hai e lo vedrai moltiplicarsi tra le tue mani, come una sorgente inesauribile di bene. Ti senti poco, senti di valere poco? Donati così come sei e nell’atto stesso di donarsi scoprirai il tuo valore, quanto sei prezioso e amabile, quanto la tua vita può fare la differenza per la vita di qualcun altro.
Essere preti a Napoli
Fratelli presbiteri, grazie per l’ascolto che mi avete donato. E grazie ancora perché ogni giorno, in questa nostra Chiesa di Napoli, voi realizzate i passaggi che abbiamo condiviso insieme: riposare con Gesù, lavorare per la gente, donare sé stessi. Passaggi che insegnate con la vostra vita donata anche gli altri. Vita donata in una terra bellissima e affascinante ma anche difficile: la nostra Napoli.
Essere preti a Napoli significa, infatti, annunciare il Vangelo ad un popolo predisposto alla gioia e alla bellezza di vivere ma anche profondamente ferito e, pertanto, bisognoso di chi soffi sulle ceneri della delusione l’ossigeno necessario a ridare fiamma alla Speranza.
Essere preti a Napoli significa non di rado essere gli unici avamposti di giustizia in contesti in cui il mondo sembra rovesciato e ci si ritrova ad essere, per coerenza e fedeltà al mandato del Maestro, profeti solitari di solidarietà e pace.
Essere preti a Napoli significa anche diventare uomini capaci non soltanto di seminare la fede e l’amore ma anche di raccogliere a piene mani la messe di carità e fiducia che tanta gente semplice, tanti poveri, tanti ultimi insegnano ogni giorno a ciascuno di noi, evangelizzandoci prima ancora di essere noi ad evangelizzare.
Essere preti a Napoli significa lasciarsi illuminare dalle tante manifestazioni di autentico amore per il Signore, manifestazioni semplici, ricche di pietà popolare, che vanno accolte, valorizzate ma anche purificate, affinché l’esteriorità non abbia la meglio sull’essenza della fede nel Risorto.
Essere preti a Napoli significa anche lasciarsi contagiare dal valore della solidarietà ed evitare per questo di essere liberi battitori, individualisti ostinati, rinunciando talvolta a quelle sterili corse in avanti motivate non tanto dalla profezia ma dalla volontà di essere i primi: sì perché essere preti a Napoli significa non essere da soli, cercare di essere famiglia, e non solo come un unico presbiterio ma all’interno di un’unica Chiesa, di un unico popolo, abitato da una molteplicità di carismi e differenze che possono dar vita ad un’unica e irripetibile armonia, quella dello Spirito.
Che questo Spirito, che lo Spirito del Risorto continui il lavoro in voi, che sia il senso del vostro riposo e del vostro lavoro, che sia la sorgente inesauribile della vostra donazione generosa. E ricordate: la nostra Chiesa, la nostra città, ha bisogno di voi, del vostro si quotidiano, del vostro essere preti qui, oggi, in questo tratto di storia, in questa terra bisognosa di amore. E proprio per questo voglio farvi una preghiera, una preghiera da padre e fratello maggiore: camminiamo insieme nella cura vicendevole. Si, prendiamoci cura di noi stessi, della nostra fraternità, di tutto ciò che abita il nostro cuore. Dal gruppo di studio sinodale sui presbiteri – tra altre importanti attenzioni – è emersa questa: la necessità della cura che prima ancora di essere cura degli altri è cura di sé se stessi. Sapete, a volte corriamo il rischio di credere che prenderci cura di noi sia egoismo. Nulla di più falso. D’altronde il Maestro stesso ci insegna nei suoi ritiri solitari, nel suo fuggire a volte dalla folla, nella sua ricerca di luoghi amicali e fraterni come Betania, che è invece un atto necessario. Direi una precondizione essenziale affinché il dono di sé sia autentico, generoso, genuino. Insomma “diamo noi stessi da mangiare” ma facciamo anche in modo che il nostro donarci sia sano, gioioso, che il nostro non sia solo un “farci pane” ma farci un pane “buono”, nutriente, vigoroso. Si, che lo Spirito ci aiuti anche in questo: nel prenderci cura di noi, della nostra fraternità, per dare alla nostra gente un pane buono, capace di rallegrare il cuore.”