C’è un’emozione che tocca la pelle nella Messa del Giovedì Santo. In tutte le Messe certamente, ma, questa sera in modo particolare. È la sua “ora”: l’ora in cui il Figlio dell’Uomo vivrà il suo passaggio alla vita libera dal potere della morte, e lo vivrà proprio attraversando, affrontando e vincendo quella stessa morte. Gesù sta per vivere la sua Passione, il suo passaggio pasquale attraverso una morte violenta, ferito non solo nel corpo ma anche nelle sue relazioni, tradito, rinnegato. È la sua pasqua, assunta e vissuta nella dimensione del dono e resa comprensibile per noi, uomini e donne di ogni luogo e di ogni tempo, nel pane spezzato e condiviso. Ed è proprio in quel pane e vino condivisi che Gesù apre la sua pasqua al “noi”: nel dono della sua vita significato dal pane e dal vino eucaristici, dono della vita per la vita di tutti, egli ci trascina nel suo passaggio alla libertà, apre anche per noi la via della resurrezione, della liberazione da ogni schiavitù che ci opprime. A ogni eucaristia noi siamo partecipi della sua pasqua, che diviene la nostra pasqua per la vita.
Il quarto vangelo non parla dell’istituzione dell’eucaristia, perché Giovanni scrive il vangelo ormai dopo gli anni novanta e vede che nella Chiesa l’eucaristia è diventata un rito: si spezza il pane e si accede al calice, ma non c’è più un servirsi l’un l’altro nella comunità. E allora Giovanni sostituisce il racconto dell’istituzione del banchetto eucaristico con il racconto della lavanda dei piedi. E ricalca le parole di Gesù. Nel racconto del banchetto, così come è ricordato dagli altri evangelisti, Gesù aveva detto: “fate questo in memoria di me”. Nel racconto di Giovanni Gesù dice: “Avete capito quello che vi ho fatto? Se io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi l’un l’altro. Infatti vi ho dato l’esempio, perché, come io ho fatto, facciate anche voi”. Fate il banchetto, fate la lavanda dei piedi. E perché non fraintendessimo il segno, e perché il gesto rimanesse nella memoria dei discepoli, Gesù “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto”. Era il gesto del servo. Era il gesto del servo che conosce la stanchezza di chi ha camminato a lungo per strade disagiate e polverose. Versare l’acqua, lavare i piedi è ristoro alla stanchezza degli umani.
Lavare i piedi di chi è stanco: ottavo sacramento. Sacramento non ricordato nell’elenco delle chiese, eppure istituito da Gesù con un gesto luminoso, esplicito, il sacramento che più degli altri e meglio degli altri attualizza la presenza di Gesù in mezzo ai suoi. Se vuoi essere in comunione con Gesù, lava i piedi degli altri, lava i loro piedi. O se volete essere servi come Gesù è stato servo. E di questo, del suo essere servo, ha fatto il titolo più significativo della sua vita. “Voi – disse – mi chiamate il maestro e il signore, e dite bene”. Ma subito, a scanso di equivoci, aggiunse che il suo vero titolo era impresso a memoria in quel gesto, mani che lavano piedi. Sintesi estrema, ultima, senza fraintendimenti, dell’intera sua vita.
Ma come dare forma al mandato di Gesù, legato all’asciugatoio e al catino d’acqua, mandato che è una consegna, la consegna di servire? Sollevate, sembra dire, la stanchezza che pesa su questa umanità. Non passate con indifferenza. I vostri occhi siano pronti a cogliere le pesantezze che segnano i volti, i carichi che fanno curve le spalle, il peso di chi ritorna a casa la sera ad ore tarde, il peso spesso dimenticato di chi ha faticato senza soste nelle case, la sfinitezza di chi è stremato dai problemi, la disperazione di chi non ha di che vivere… E date, come potete, là dove potete, un gesto che sia sollievo, una parola che dica vicinanza.
Sorelle e Fratelli, è la prima volta, da quando sono a Napoli, che celebro questa eucarestia così solenne e al contempo così semplice, dal tono domestico, feriale, intimo, nella nostra chiesa cattedrale. Per me la sera del Giovedì Santo, da quando sono vescovo, rappresenta infatti una sorta di pellegrinaggio simbolico, che mi conduce idealmente – insieme alla Chiesa che il Signore mi ha affidato – dinanzi ai piedi di persone sofferenti, persone che rischiano di restare ai margini della vita, o perché messe fuori o perché la vita, nel loro cuore, fa fatica a pulsare e ad irrorare speranza.
Questo Giovedì Santo, invece, la situazione è diversa. Sono qui, tra queste mura ispessite di storia, mura che raccontano non solo le secolari vicende della Chiesa ma anche le storie dell’intera città, le attitudini di un intero popolo la cui passione e resurrezione, sembra ripetersi continuamente e ciclicamente, nella carne viva di coloro che divengono vittime delle ingiustizie e della violenza ma che con la loro forza intrisa di umanità e di Vangelo, trasformano il loro dolore in semi di risurrezione per il bene di tutti, per la vita del nostro popolo.
Idealmente è l’intero popolo di Napoli che vedo qui, nel silenzio di questa sera già abitata dal profumo pasquale. E questo Duomo improvvisamente, dinanzi ai nostri occhi, sembra trasformarsi nella povera stanza del cenacolo, tra le cui mura il Maestro si china, umile, verso i piedi polverosi degli amici.
Dalla brocca d’acqua che ha tra le sue mani, sgorga una fonte antica, la fonte dell’amore, quell’amore capace di ritemprare i cuori di chi si sente “affaticato e oppresso”, toccato dalla “banalità del male”, assalito dalla fatica di vivere, sporcato dai detriti del dolore, afferrato da un’estenuante stanchezza.
Non è forse questa stanchezza che avvertite voi, sorelle e fratelli cari, a cui questa sera, in memoria del Maestro e del suo gesto d’amore laverò i piedi? Attraverso il segno della lavanda, oggi vorrei che nascesse dentro di voi la consapevolezza che Lui, il vostro Signore, Amico, Compagno e Fratello cammina con voi, vi prende per mano, pone i suoi piedi sulla stessa terra di dolore che voi percorrete, sulla stessa vostra strada fatta di sofferenza e ingiustizia, condividendo la vostra fatica, la spossatezza immensa dei vostri piedi, del vostro cammino. Attraverso il segno della lavanda, oggi vorrei che riusciste ad ascoltare con il cuore la voce del Crocifisso Risorto, il suo desiderio di sollevare la vostra stanchezza e rigenerare attraverso l’acqua della speranza, i vostri piedi affaticati da un cammino doloroso e impervio! Il Maestro vuole risollevarvi dalla stanchezza della rabbia, quella rabbia che giustamente ha abitato e abita nella vostra vita, fin dal giorno in cui mani assassine vi hanno strappato via un padre, un fratello, una sorella, una madre, un figlio!
Il Maestro vuole risollevarvi dalla stanchezza della lotta, di quella lotta che ha tramutato il vostro dolore in carità, in servizio, in solidarietà e impegno per una città più giusta, per una comunità pacifica e beata, perché assetata di giustizia e impegnata a costruire la pace! Il Maestro vuole risollevarvi dalla stanchezza della disperazione, quella che in alcuni momenti – come un mostro dal volto oscuro – sembra afferrarvi, immergendovi in una nostalgia struggente che vi conduce a chiedervi come sarebbe stata la vostra vita se quel giorno quella mano non avesse sferrato il suo colpo! Si, il Maestro vuole donarvi speranza, quella speranza che non elimina il dolore ma gli dona senso, significato, aprendo il cuore e la mente alla vita, al futuro, al cielo, a quella dimensione in cui i vostri amati vivono, riuscendo perfino a starvi accanto!
Amici miei e amiche mie, questa sera, nell’intimità della Santa Cena del Signore, sono felice della vostra presenza, sono felice di spezzare con voi il Pane della vita, sono felice che le nostre povertà si incontrino, la mia povertà di uomo e di prete – che spesso dinanzi all’assurdità della morte, di alcune morti, resta senza parole, con domande sospese al cielo che si sciolgono solo nella preghiera – e la povertà, la sofferenza dei vostri cuori spezzati dal dolore della morte di un familiare a causa di una mano violenta, spietata, folle. Sappiate che la vostra carne insieme a quella di tutti i poveri della terra è il sepolcro vuoto del Dio risorto, il luogo della sua presenza nella nostra storia, il pulpito da cui ci parla donandoci annunci di resurrezione, possibilità di ricominciamenti, germogli di antiche e nuove speranze.
La Pasqua che questa sera inizia intorno alla mensa dell’Eucarestia, resa ancor più intima dai segni del grembiule, della brocca e del catino, sarà quella in cui scopriremo finalmente che i passi della giustizia e della pace sono le stimmate del Risorto? Questi giorni santi saranno il tempo in cui comprenderemo che dove il povero comincia a vivere, dove il povero comincia a liberarsi, dove gli uomini e le donne sono capaci di sedersi attorno a una tavola comune per condividere ciò che sono e ciò che hanno lì Dio è presente? Sarà questa la Pasqua in cui risorti con il Risorto faremo nostra sul serio e fino in fondo la causa della pace, della liberazione e della giustizia fidandoci in fondo della parola del Vangelo?
Io mi auguro di si, e la vostra presenza accanto a me, familiari che rappresentate le tante vittime che in questo tempo, in questa città hanno perso la vita a causa della violenza, mi dice che c’è speranza! E questa speranza sarà ancor più forte nella misura in cui andremo oltre le nostre paure, oltre perfino la paura di morire, addirittura oltre il dolore, imparando ogni giorno a giocare e a rischiare la vita fidandoci di un Amore immenso, divino, capace di far tornare sui propri passi anche la morte.
Si, perché qualunque sia la notte che viviamo non sarà la fine. Il Signore è Risorto e con Lui la storia ricomincia sempre, ogni giorno, ogni attimo. Per sempre. La pietra sul sepolcro infatti non avrebbe dovuto custodire solo il corpo di Gesù, ma anche e soprattutto il suo sogno, la sua ostinata volontà di inseguire l’impossibile. Allo stesso modo, dal sepolcro non si è alzato solo il corpo di Gesù, ma anche il suo sogno. Che questa Pasqua appena iniziata sia per tutti noi, la festa in cui permetteremo al Crocifisso Risorto di sollevare i nostri dolori, di prendersi cura delle nostre stanchezze, soffiando sulla nostra storia personale e comunitaria, sulla storia del mondo, contagiando ogni luogo di morte, trasformandolo in culla di vita nuova, di vita vera.