“PERMESSO, SCUSA, GRAZIE”

Santa Messa in suffragio di Papa Francesco
24-04-2025

“Sorelle e fratelli,

oggi siamo qui come un’unica famiglia, in comunione con tutta la Chiesa universale, per ringraziare il Signore per il dono immenso che Papa Francesco è stato, non solo per la Chiesa, ma per il nostro tempo e per questo mondo così bisognoso di testimoni credibili, di profeti coraggiosi, di annunciatori del Vangelo e difensori dei poveri.

Si, difensori dei poveri, quei poveri il cui sguardo pieno di lacrime ho incrociato ieri mattina, in Piazza San Pietro, mentre vedevano passare il “loro” Papa, il Vescovo di Roma che ci ha raccontato il sogno di una “Chiesa povera e per i poveri”, un sogno che resta per noi intatto, non come eredità da custodire, ma come compito da realizzare ancora.
Nessuno di noi immaginava che quell’abbraccio così immersivo tra la gente, nel giorno di Pasqua, sarebbe stato l’ultimo. Né che il giorno dopo, Francesco ci avrebbe salutati per sempre.
Eppure, a guardare bene le trame sottili delle coincidenze, la sua partenza proprio il lunedì dell’Angelo ha un significato che ci parla. Quel giorno è come una seconda Pasqua, più quieta, più discreta. Che la tradizione denomina “dell’angelo” quasi a sottolineare il ruolo di chi, dinanzi al sepolcro chiuso della morte, annuncia l’imprevedibile e l’imponderabile della Resurrezione, aprendo inediti spazi di vita eterna a chi credeva che tutto finisse lì, dietro a una grossa pietra.

Così, nel raccoglimento della preghiera, mi è venuto da immaginare che anche noi, come popolo di Dio, sconvolti da quella notizia, ci siamo trovati davanti a un sepolcro. E lì, in quel silenzio carico di smarrimento, abbiamo potuto ascoltare una voce – forse di un angelo, forse del Signore stesso – che ci ha guardati con dolce fermezza e ci ha detto: “Francesco non è qui. È vivo. È con me. È partecipe della mia resurrezione”.

Ed è questa la certezza che oggi vorrei annunciare a tutti voi mentre salutiamo Papa Francesco: non è morto, è vivo. Non è più tra noi come lo conoscevamo, con quella voce roca e affaticata, con le sue carezze sulle teste dei bambini, con i suoi abbracci agli ammalati e ai poveri, con il suo sguardo che sapeva consolare e provocare. Si, non è più tra noi ma è vivo. È vivo in Dio, con il Dio dei viventi. È vivo nel cuore della Chiesa che ha tanto amato. È vivo nel Vangelo che ha cercato di testimoniare e annunciare fino alla fine.
Siamo chiamati ad accogliere e custodire questa Vita Eterna che è il cuore della nostra fede e di questi giorni liturgici, nella certezza che l’annuncio della Pasqua è l’annuncio di cui oggi il mondo ha più che mai bisogno. In un tempo ferito da guerre, solitudini, incertezze, la parola della Resurrezione risuona come parola viva che illumina le tenebre e dà senso al nostro cammino, donando la forza necessaria per continuare a costruire il Regno, qui, ora, nelle piccole e grandi scelte quotidiane.

Se c’è una cosa che Papa Francesco ci ha insegnato, è proprio questa: che niente e nessuno può portarci via la gioia del Vangelo, la gioia della Pasqua. Una gioia profonda, che non è assenza di dolore, ma presenza del Signore. È la compagnia di un amore che non si arrende, che vince ogni morte. Una gioia donata, non da trattenere, ma da condividere, perché il Vangelo è per tutti, e la vita piena è promessa a ogni uomo e a ogni donna. Ed è questa gioia, alla fine, ad avere l’ultima parola sulla nostra storia illuminare la certezza che il nostro pastore, il nostro amato Papa Francesco, ora contempla il volto del Crocifisso Risorto.

Sorelle e fratelli, io sono convinto – e credo che anche voi lo siate con me – che davvero il Signore Risorto ha accolto tra le sue braccia il nostro Papa Francesco. Lo ha riconosciuto come compagno, come amico, come fratello. Perché Francesco non ha solo parlato di Cristo: lo ha amato. Non ha solo spiegato il Vangelo: lo ha vissuto. E quando un uomo, pur tra le fatiche, le contraddizioni e i limiti, si lascia plasmare dalla Parola, allora Dio lo guarda e dice: “Vieni, entra nella gioia del tuo Signore.”

Sapete, mi ha profondamente colpito il suo testamento. Così semplice, di poche parole ma chiare, quasi come l’appunto di un anziano padre lasciato ai figli sui suoi desideri ultimi e sul senso del suo ultimo tempo: parole intime, vere, profonde. Colpisce come abbia vissuto interiormente il tempo della malattia e della sofferenza, facendone un’offerta viva e totale per la pace e per la fraternità tra i popoli.

Si, Francesco ha portato nel corpo i segni della fatica e del dolore ma li ha trasformati in preghiera, in olio versato sul mondo ferito. Non ha trattenuto il dolore, l’ha consegnato. Donandosi fino alla fine. E poi il suo affidarsi a Maria, tenero e filiale, lontano da ogni formalismo. A lei ha affidato la sua vita e da Papa ancor di più ha sentito il bisogno quasi fisico di essergli vicino, affidandogli e raccontandogli i suoi viaggi, i suoi passi, le sue decisioni, le sue intenzioni. In fondo il suo continuo pellegrinaggio alla Basilica di Santa Maria Maggiore ha significato proprio questo. E come un figlio che desidera essere sepolto vicino alla propria mamma, ha disposto che il suo corpo riposasse lì, in modo semplice, nella nuda terra, senza ornamenti, con solo un nome: “Franciscus”. Come a dire: non contano i titoli, conta chi sei. A chi appartieni. E lui apparteneva al Vangelo, a Cristo, e a Colei che lo ha portato in grembo,
Maria.

Amato Papa Francesco, nel salutarti quest’oggi, insieme alla mia Chiesa di Napoli, voglio utilizzare tre parole che sempre ci hai raccomandato durante i tuoi discorsi: permesso, scusa, grazie.

Si, permesso. Ti chiediamo il “permesso”. Il permesso di trattenerti ancora un po’ e di continuare a parlare con te, di citarti, di ricordarti come se fossi ancora tra noi, perché lo sei. Perché abbiamo ancora bisogno della tua voce che sussurra misericordia, della tua mano che indica il Vangelo e ci spinge ad uscire dalle nostre sicurezze fidandoci dello Spirito, del tuo sguardo che abbraccia le periferie esistenziali e geografiche della nostra anima. Abbiamo bisogno della tua tenerezza, del tuo coraggio, della tua libertà. Della tua naturalezza. Del tuo esempio umile. Della tua capacità di riconoscere perfino gli errori, chiedendo scusa, con gentilezza. Per questo ti chiediamo “permesso”: per entrare un po’ con te nel Paradiso e continuare a sentirti nostro padre, nostro fratello, nostro compagno di cammino.

E poi ti chiediamo scusa. Scusa per tutte le volte che non ti abbiamo capito. Per quando le tue parole – così limpide, così evangeliche – ci sono sembrate troppo semplici, quasi scomode, troppo poco “strategiche” per una Chiesa spesso tentata da un linguaggio formale, accademico, prudente, a volte eccessivamente prudente. Scusa per quando le tue parole sono state fraintese, manipolate, tagliate, distorte, ridotte a slogan. Scusa per quando qualcuno ha pensato che il tuo amore per i poveri fosse solo un gesto di facciata, una debolezza da correggere, un rischio ideologico per l“ immagine” della Chiesa. E invece tu eri lì, a lavare i piedi, a toccare le piaghe, a chiamare per nome chi il mondo aveva scartato. Eri lì, come il Maestro.
Scusa per quando il tuo desiderio di una Chiesa aperta, ospitale, con le braccia larghe come quelle del Padre misericordioso, è stato letto come ambiguità, come confusione. Quando ci siamo messi a fare i contabili del perdono mentre tu, invece, spalancavi le porte della misericordia, fedele al tuo Signore.
Per tutte le porte che ti sono state chiuse. Le resistenze, i mormorii, le trincee. Che hanno abitato spesso le nostre chiese, i nostri palazzi, le nostre assemblee. Perché spesso siamo stati più innamorati delle nostre certezze che del Dio delle sorprese. Siamo stati più fedeli alle consuetudini che al soffio dello Spirito.
Scusa, Francesco, se non sempre ti abbiamo accompagnato come meritavi. Se non ti abbiamo custodito come si custodisce un sogno fragile e prezioso.

Tu ci parlavi di misericordia, e noi pensavamo a dividere il mondo in buoni e cattivi. Tu ci parlavi di carezze, e noi eravamo impegnati nei comunicati. Tu ci insegnavi a inginocchiarci davanti ai poveri, e noi cercavamo le poltrone comode.
Scusa, perché mentre tu aprivi varchi, noi innalzavamo barriere… tu camminavi leggero, noi ti volevamo rallentare con i nostri pesi… perché ci hai fatto da pastore e da profeta, ma noi abbiamo fatto finta, troppe volte, di non sentire la tua voce, come quando, mentre parlavi di Pace e di disarmo, ti applaudivamo felici per poi fare l’opposto.
E per questo, abbiamo bisogno più che mai di dirti anche un grande ed immenso grazie. Grazie per ogni gesto, ogni silenzio, ogni sorriso. Grazie per quando ci hai chiesto di non vivere da funzionari del sacro ma da pastori con l’odore delle pecore. Grazie per averci ricordato che prima delle norme viene l’incontro, che prima della regola viene la persona. Grazie per aver parlato più con la vita che con i documenti. Per aver stretto mani, asciugato lacrime, abbattuto muri.

Grazie perché ci hai fatto vedere un volto di Chiesa che somiglia di più a quello di Gesù. Grazie per aver difeso fino alla fine la Pace.
Grazie, Francesco, perché hai amato il Signore e perché ci hai amati. E questo, no, questo non si dimentica. E vorrei che tu sapessi che anche noi ti abbiamo amato e continueremo ad amarti. Come Chiesa di Napoli – che da te si è sentita guardata, capita, abbracciata – vogliamo affidare te e la Chiesa
universale che hai servito fino alla fine a Colei sotto il cui sguardo hai voluto che il tuo corpo riposasse;

Maria, madre tua e madre nostra:
Maria,
Madre nostra,
Madre della Chiesa,
Donna della tenerezza e Madre di Misericordia,
oggi ti affidiamo papa Francesco,
servo umile del Regno,
voce limpida tra le contraddizioni di questo nostro tempo,
messaggero e testimone della Pace.

Tu lo hai visto chinarsi sui volti feriti dei poveri,
accarezzare il dolore del mondo
e spezzare il pane con chi aveva fame d’amore e d’accoglienza.
Lo hai accompagnato quando ha gridato
che nessuno si salva da solo,
che la Chiesa è madre e deve cercare ogni suo figlio,
che il perdono è più forte del giudizio.

Accoglilo ora tra le tue braccia e ponilo accanto a tuo Figlio
che ha cercato, seguito e servito.
Accoglilo come si accoglie chi ha dato tutto,
chi ha consumato la vita a servizio della gioia altrui.
Accoglilo come si accoglie un figlio stanco,
che dopo aver camminato tanto ha bisogno solo di riposare
e godere della gioia di casa.

E tu, Madre nostra, mentre ti prendi cura di lui,
resta con noi e prendici per mano.
Oggi più che mai.

Resta con questa Chiesa che Papa Francesco ha amato,
con questa barca spesso sbilenca ma innamorata del tuo Figlio,
che continua a prendere il largo anche quando ha paura.
Resta con noi, popolo pellegrino,
che ancora cerca strade e parole per dire Dio
a un mondo assetato di senso e di significato.

Resta con noi, e insegnaci come hai insegnato a Papa Francesco,
ad avere un passo capace di non lasciare indietro nessuno
e un’ostinata fiducia nella bontà di ogni uomo e dell’intero creato.

Sostieni la nostra fede,
aiutaci a custodirla come il tesoro più prezioso
e a viverla ogni giorno, nella concretezza delle piccole cose,
lavandoci i piedi gli uni gli altri.

Liberaci dalle paure che ci trattengono
nei recinti comodi del sacro,
da riti che non toccano il cuore
e da parole di verità che non sanno incontrare i volti e parlare ai cuori.

Rendici profeti della prossimità,
artigiani della pace,
testimoni di un Dio che in Cristo si fa vicino ad ogni uomo e ad ogni donna,
soprattutto a coloro che sono stanchi, affaticati, al margine della strada.

E quando ci sentiremo soli,
fermi, o disorientati,
ricordaci che la vita risorta passa anche dalle crepe,
che il Regno si costruisce a mani nude,
e che il Vangelo è ancora la notizia più bella che possiamo annunciare.
Proprio come ci ha insegnato papa Francesco.

Amen.”

 

condividi su