“Sorelle e fratelli,
oggi siamo qui, convocati dal Signore Risorto, in questo luogo che porta con sé tanta storia e tanta bellezza. Ci ritroviamo non per un semplice rito, ma per rinnovare, con entusiasmo e gratitudine, il nostro “sì” al Signore, e per accompagnare con affetto e preghiera il “sì” di alcuni nostri figli e fratelli. In questo spazio antico aleggia lo Spirito che ci parla, ci rinnova come comunità in cammino, e consacra tra noi quattro giovani che hanno scelto, nella libertà e nella gioia, di rispondere “si” alla chiamata del Signore.
E questo avviene in un clima di festa: una festa di luce, di gratuità, di innamoramento. È la festa di Francesco, il Poverello, la cui testimonianza continua a parlare alla Chiesa intera. E qui, in questo luogo abitato dai suoi frati minori, tra queste mura intrise dell’eco delle figlie di Chiara — i cui canti portano con sé il profumo del Vangelo e il sapore della vera libertà — il messaggio di Francesco risuona ancora più vivo e potente per la nostra Chiesa napoletana.
In Francesco, oggi celebriamo la bellezza disarmante della Pasqua di Gesù: la forza mite della sua donazione senza riserve, la sorgente inesauribile di speranza che scaturisce dalla sua Resurrezione. È proprio da questa mensa pasquale che ognuno di noi riceve il coraggio e la gioia per ripartire, per annunciare il Vangelo con la vita prima ancora che con le parole, per costruire il Regno di Dio mattone dopo mattone, con pazienza e gratuità, per servire, in punta di piedi, i fratelli e le sorelle che la vita ci mette accanto, nelle case, nei vicoli, nei deserti interiori del nostro tempo.
Tutti annunciatori. Tutti costruttori. Tutti diaconi. Perché la diaconia non è un ministero di pochi, ma la vocazione di tutto il popolo santo di Dio, che Francesco ha abitato con radicalità e tenerezza.
E oggi, carissimi Nicola, Marco, Salvatore e Feliciano, in questa Chiesa che spera e sogna, voi vi immergete in questo ministero prezioso. Figli e fratelli miei, ricordate però sempre che il diaconato che oggi ricevete non è un titolo, non è solo un grado che vivrete per un po’. È una ferita d’amore che lo Spirito vi apre nel cuore. E che è tutt’altro che “transeunte”: è e deve essere permanente! Per questo dovete custodirla, affinché resti aperta. Perché passeranno gli anni, cambieranno i ruoli, ma quella ferita d’amore — se custodita — resterà viva. E si farà feritoia: spiraglio attraverso cui Dio si lascia intravedere, e da cui potrete guardare il mondo e la fragilità di chi vi sarà affidato con gli occhi del Crocifisso Risorto. Diverrà così una ferita che si piega sulle ferite altrui. Come le piaghe di Francesco: segni d’un amore talmente folle da rendere il suo corpo immagine viva del suo Amato. In un film di Liliana Cavani, Chiara racconta il momento in cui vide le stimmate di Francesco: «Non disse niente. Lo medicai, lo fasciai senza chiedere nulla. Pensai… pensai che l’amore aveva reso il suo corpo identico al corpo dell’Amato. Mi chiesi se io sarei mai riuscita ad amare così tanto».
E oggi, fratelli miei, questa domanda diventa anche la vostra domanda. E diventa la nostra domanda.
Non ci si interroga tanto sull’efficienza del nostro servire, ma sulla qualità dell’amore che mettiamo nelle nostre giornate: nella capacità di prenderci cura gli uni degli altri, di curarci per poter insieme curare, lungo le strade bellissime e spesso tortuose dell’umanità.
Amici miei, non cercate di essere perfetti. Cercate di essere feriti. Feriti dall’amore. Perché solo nella misura in cui sarà così sarete davvero diaconi del Vangelo.
Ora lasciamo che il Vangelo ci parli. Come parlò a Francesco, quando nella Porziuncola ascoltò il mandato del Crocifisso: «Va’ e ripara la mia casa» (2Cel 10). Come parlò a Chiara, quando decise di seguire il poverello di Assisi nel silenzio della notte di San Damiano.
Vedete, i versi liturgici che oggi la Sapienza della Chiesa ci consegna in questa festa ruotano intorno a tre parole che vi consegno e che nascono dall’incontro tra questa pagina di Matteo e l’esperienza di Francesco.
La prima parola è piccolezza. Gesù lo dice: «Ti benedico, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».
Dio si compiace dei piccoli, non dei furbi che calcolano, né dei forti che schiacciano, né dei dotti che pretendono di possedere la verità. Si rivela a chi si fida, a chi lascia spazio, a chi non ha bisogno di spiegare tutto ma si lascia sorprendere. Francesco lo capì quando scese tra i lebbrosi, lui che era figlio di mercanti e amava la bellezza: fu lì, tra i rifiutati, che incontrò Cristo. Lo scrive nel suo Testamento: «Il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo». I lebbrosi furono per lui una cattedra, una soglia di conversione, che lo rese minore tra i minori, piccolo tra i piccoli, rinunciando a ogni potere, a ogni titolo, a ogni pretesa.
La piccolezza non è un ridursi, ma un affidarsi. Non è infantilismo, ma fiducia pura. Il poeta Christian Bobin, innamorato del Poverello, scriveva che «l’infinitamente piccolo è più grande dell’infinitamente grande, perché contiene il cuore». È questo il paradosso del Vangelo: Dio si nasconde in ciò che il mondo scarta, si lascia trovare nei frammenti che nessuno guarda. Carissimi ordinandi, oggi vi consegno questa parola: piccolezza. Vivetela come libertà dalle maschere e come fiducia vera nel Signore. Non vi sarà chiesto di sembrare grandi, ma di custodire i piccoli. Non vi sarà chiesto di gestire strutture, ma di accompagnare vite.
La seconda parola, che risuona forte nel Vangelo, è umiltà. Lo dice Gesù: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». L’umiltà è la radice nascosta che tiene in piedi l’albero: se non c’è, tutto crolla. È il terreno buono dove il Vangelo può mettere radici vere. È la virtù che ci libera dall’illusione di essere padroni della vita, per restituirci la gioia di essere servitori dell’amore.
Francesco fu umile in modo radicale: si spogliò davanti al padre e al vescovo, e si rivestì solo di Cristo. Dice la Leggenda Perugina: «Si fece il più piccolo tra i piccoli, per poter diventare fratello di tutti». Anche a voi, oggi, consegno questa parola: umiltà. Sarà la radice del vostro ministero. Senza di essa, il servizio diventa potere, la missione si trasforma in carriera, l’altare diventa palcoscenico. Con essa, invece, sarete fratelli tra i fratelli, compagni di strada, uomini semplici che con la vita dicono: «Mio Dio e mio tutto».
E poi c’è la mitezza. Gesù la ripete insieme all’umiltà, quasi a dire che sono sorelle inseparabili. La mitezza è la forza che non schiaccia, il coraggio che non urla, la potenza che non fa rumore. È il volto dell’amore che non impone, ma si offre.
Francesco fu mite fino alla fine: quando chiamava “frate” il sole e la luna, quando parlava al lupo di Gubbio, quando si presentò al Sultano a mani vuote, senza armi se non quelle della pace. Quando ricevette le stimmate, segno di un cuore che si era lasciato trafiggere dall’amore del Crocifisso. Bonaventura scrive che «Francesco non portava spada, eppure conquistava i cuori; non aveva eserciti, eppure riuniva moltitudini». Carissimi, vi consegno anche questa parola: mitezza. Sarà la forza del vostro ministero. Non avrete altro potere se non quello dell’amore. Non conoscerete altra vittoria se non quella del perdono. Non eserciterete altra autorità se non quella della vicinanza.
Nicola, Marco, Salvatore e Feliciano, il Vangelo di oggi si chiude con una promessa che ha il sapore della tenerezza di Dio: «Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero». Dolci e leggeri: così sono i passi di chi si lascia plasmare dalla Parola. Non è ingenuità, non è fuga dal mondo. È il dono di un amore che sa rendere leggeri anche i momenti più pesanti. È la carezza di un Dio che non schiaccia, ma solleva; che non lega, ma libera; che non toglie, ma dilata.
Dentro questo orizzonte di dolcezza e leggerezza, si comprende anche il celibato che oggi voi abbracciate. Non è condanna, non è mutilazione dell’umanità, non è assenza di amore. È, piuttosto, il suo dilatarsi all’infinito. Il celibato è un giogo soave, non un peso insopportabile. È una scelta di libertà, un respiro largo che vi rende disponibili a tutti senza appartenere a nessuno. Non è imposizione, ma dono. Non è rinuncia alla gioia, ma custodia della sorgente da cui la gioia nasce. È segno forte in un tempo che misura tutto sul possesso e sull’individualismo: voi, con la vostra vita, direte che l’amore vero non trattiene, ma si dona. Francesco, che chiamava Dio “mio Dio e mio tutto”, visse così: libero, felice, aperto. Scriveva: «Nulla di voi trattenete per voi, affinché totalmente e con tutto il cuore, con tutta l’anima e la mente e con tutte le forze, rendiate culto, amore, servizio e lode al Signore Dio».
Il celibato, allora, è segno che siete stati conquistati dall’amore di Cristo. Non vi separa dagli uomini e dalle donne di questo mondo, ma vi consegna a loro in modo più radicale. Vi rende carezza e vento, vi rende capaci di stare sulle ferite, con il cuore spalancato alla fecondità dello Spirito.
Siate dunque celibi non per sottrarvi all’amore, ma per moltiplicarlo. Non per chiudervi in una solitudine sterile, ma per vivere una comunione senza confini. Non per rinunciare alla gioia, ma per custodirla nella sua purezza, là dove il cuore è libero, indiviso, totalmente di Dio.
E così la vostra vita sarà canto. Canto di dolcezza e leggerezza. Dolcezza nel servire con mani gentili e parole umili. Leggerezza nel portare i pesi degli altri, senza trasformarli in catene, ma facendoli diventare comunione.
Fratelli carissimi, affido voi, i vostri sogni, le vostre famiglie alla preghiera di Francesco. Affido a lui questa nostra Chiesa di Napoli, chiamata a essere diacona della verità e della carità: non padrona, ma serva; non arroccata nei palazzi, ma pellegrina sulle strade; non distante dai poveri, ma accanto a loro.
E che il poverello di Assisi vi accompagni ogni giorno con la sua intercessione e con la sua semplicità. Perché piccolezza, umiltà e mitezza non sono parole da archivio, ma forza viva del Vangelo. E rendono la vita, anche nelle sue croci, davvero dolce e leggera.
Maria, Regina della Pace, custodisca i vostri cuori innamorati e benedica i vostri passi affidati; custodisca la fame di Dio che vi abita dentro e benedica la strada che percorrerete, insieme al Cristo servo, verso tutti i fratelli e le sorelle; custodisca i vostri desideri di piccolezza, umiltà e mitezza e benedica il vostro cammino alla sequela del Maestro, sui passi di Francesco, i passi degli ultimi e dei poveri, i passi del Vangelo.
Amen.

