“Carissimi fratelli presbiteri,
sono felice di essere con voi quest’oggi. Ho atteso con trepidazione quest’assemblea. Sapete, in questo mese, che mi ha visto per la maggior parte del tempo fuori per la celebrazione del Sinodo, vi ho pensato tante, tantissime volte e nella passeggiata serale tra i vicoli intorno piazza S. Pietro parlavo di voi al Signore e raccomandavo alla sua e alla nostra Madre il vostro servizio di presbiteri e la vostra serenità interiore.
Guardando alla maestosità di quella piazza e pensando alla ristrettezza delle tante strade e dei molti vicoli delle nostre città, mi sono venuti in mente spesso i vostri nomi e i vostri volti, e vi ho immaginato nelle strade e nei vicoli della nostra terra, quelli che percorrete ogni giorno per portare conforto a tante persone che attendono la vostra carezza e per annunciare il Vangelo della Speranza a cuori che la speranza hanno visto portarsela via da eventi tristi, da dolori grandi e dagli smarrimenti esistenziali da cui nessuno può dirsi esente.
Sono certo che anche a voi sarà capitato, come tante volte è accaduto a me, di abitare le notti di chi soffre, di chi invoca un raggio di luce dal cielo, di chi ha perso la strada e fa fatica a ritrovarla, di chi a causa di una società ingiusta e indifferente si è ritrovato improvvisamente ai margini della comunità, rischiando di perdere la fiducia nell’alba di giorni e possibilità nuove di vita. E magari alcune volte sarà capitato anche a voi di sentirvi imprigionati in una notte che sembra non finire, come se la luce non riuscisse a diramarla mai. Anche voi vi sarete sentiti porre e magari avrete posto a vostra volta la domanda poetica e potente posta nel libro del profeta Isaia: “Sentinella, quanto resta della notte?”.
Isaia utilizza la figura simbolica della sentinella, molto presente nella letteratura profetica e apocalittica, perché il suo ruolo è quello di vegliare, vigilare, scrutare l’orizzonte tenebroso in attesa dell’alba. Il contesto storico in cui il profeta pronuncia quest’oracolo è quello di un’epoca di grande instabilità politica e sociale, dominata da minacce imminenti e speranze di liberazione, da un’attesa inquieta segnata dalla speranza di un sollievo dalla sofferenza. La domanda ripetuta “quanto resta della notte?” riflette un desiderio di sapere quanto durerà la prova, il periodo di oscurità e difficoltà. La risposta della sentinella, però, sembra essere particolarmente ambigua: “Viene il mattino, e viene anche la notte”, suggerendo che, anche se ci sarà una liberazione (il mattino), l’oscurità (la notte) non è ancora del tutto passata. Forse in un certo senso questa ambiguità può rappresentare anche la realtà della vita e dell’esistenza, in cui non è mai possibile separare del tutto la luce dalle ombre, la gioia dalla sofferenza, l’entusiasmo dalla stanchezza. E proprio per questo non viene data una risposta chiara o definitiva sulla durata della sofferenza, ma piuttosto un invito alla vigilanza, all’attesa e alla fiducia nell’alba che verrà.
È difficile pensare a questa mescolanza di luci e di ombre a cui probabilmente Isaia si riferisce e all’instabilità tumultuosa del tempo in cui scrive quest’oracolo, senza pensare alla notte del tempo che viviamo ma anche alle luci che non smettono di brillare, alle tante minacce sociali, politiche, economiche che incombono sulla comunità umana come alla profezia evangelica della pace e della giustizia di cui, lo spazio e il tempo in cui il Signore ci ha posto come presbiteri, hanno bisogno più che mai. Uno spazio e un tempo che ci mette spesso in discussione e ci pone domande prima inconcepibili. Infatti a volte la notte sembra investire anche il nostro cammino di uomini e di preti e le ombre della paura dovute all’incertezza e al cambiamento segnano anche il percorso della Chiesa.
Sovente viviamo la notte perché nel guado dell’attraversamento di epoca, conosciamo bene il mondo che abbiamo lasciato, il modello di chiesa e di prete che sta tramontando e non ci è ancora del tutto chiaro il modo in cui siamo chiamati a servire il Regno e ad annunciare il Vangelo oggi, in un tempo nuovo che non è più un tempo di “cristianità”. Il cristianesimo infatti, nella nostra Europa, non rappresenta più la base solida della vita sociale, politica e culturale come lo era un tempo. E anche se noi, figli di questa terra partenopea siamo privilegiati, perché servi di un popolo ancora abitato dai sussulti della fede e dall’affidamento al Signore della vita, non possiamo non vedere che anche tra la nostra gente la fede influenza molto meno la cultura e le abitudini delle persone, diventando una questione più personale, individualista. Ma attenzione, la fine della cristianità non è la fine del cristianesimo, come la crisi delle forme religiose in cui finora ci si è espresso non è la crisi della sequela e della fede.
Anzi paradossalmente può segnare l’inizio di una nuova primavera di annuncio e testimonianza come di una sequela più libera, autentica, vissuta con maggiore consapevolezza, lontana dal binario morto della massa e delle abitudini. Oggi più che mai come discepoli di Gesù siamo chiamati a testimoniare la bellezza della fede, la ragione della nostra speranza, la radicalità del nostro amore non con il potere delle istituzioni, ma attraverso l’autenticità delle relazioni, la fraternità vissuta, la vicinanza alle persone, la solidarietà concreta ai poveri e agli ultimi, proponendo il Vangelo come risposta profonda ai bisogni più genuini dell’uomo e della donna di oggi, lasciando risuonare con freschezza l’annuncio della Pasqua anche in una società che lo percepisce come una tra le tante voci.
Carissimi presbiteri, sono consapevole come anche il vostro servizio presbiterale in questo tempo tumultuoso di cambiamento, affronti difficoltà e sfide significative: la crescente secolarizzazione ha portato molte persone ad allontanarsi dalla comunità cristiana e a volte quell’entusiasmo primaverile che ci spingeva a donarci interamente alla gente, per accompagnarla e servirla, sembra affievolirsi dianzi alla chiusura di chi non vuol essere nè accompagnato né servito.
E tutto questo genera domande: ha senso la mia vita? Ha ancora un significato essere prete oggi? In questa notte che a volte sembra non finire è utile ancora essere vigili come le sentinelle di Isaia? Ne vale ancora la pena?
Fratelli miei sono certo che la mia risposta convinta è anche la vostra: si, ne vale la pena, eccome!
Essere prete in questo tempo e in questo spazio vale la pena perché il nostro servizio diventa ancora più prezioso, come una fiamma che resiste al vento e continua ad illuminare la strada e a scaldare i cuori di chi non resiste al freddo. In un mondo che spesso assume uno sguardo superficiale, dimenticando il desiderio profondo che abita nell’uomo, e la sete immensa di un amore eterno che lo abita, il prete è colui che si gioca la vita per annunciare la fedeltà di un Amore più forte perfino della morte e di un’eternità che inizia già qui, su questa terra, nella misura in cui viviamo secondo il comandamento nuovo di Gesù, il comandamento dell’amore.
Essere prete in questo tempo vale la pena perché significa costruire la pace non solo in un mondo lacerato da guerre e dilaniato dai conflitti ma nel cuore dell’uomo, che oggi sappiamo essere così complesso, ferito, affamato, da vivere una continua sofferenza, indecisione, che solo una Parola ferma e certa può donare. Mi vengono in mente i versi si una canzone che è quasi una preghiera e che ben esprime questa ricerca inconsapevole e travagliata dell’uomo e della donna d’oggi: “Cerco una parola potente\Che abbracci il creato e protegga la gente \ Una parola piccola, forte come un gigante\Capace di spostare persino le montagne\Scagliata come freccia sul frastuono del niente \Che generi il futuro e partorisca il presente\ Una parola davvero importante\ Che sia detta una volta e scolpita per sempre\ Cerco una parola, solo una parola \Cerco la parola perfetta \Che sia l’unica degna di essere detta \Una parola in grado di riempire ogni vuoto\ Che scuota le coscienze come un terremoto\Una parola chiave che apra tutte le porte\ Parola madre che contenga tutte le altre \Una parola che vinca ogni guerra. Sacra come il silenzio, saggia come la terra.1
Ecco, il prete, è di questa parola che tutti cercano, perché è afferrato e plasmato dalla Parola: la accoglie con umiltà e cerca trasmetterla con coraggio e autenticità ben sapendo che è seme fecondo, destinato a germogliare e a donare al mondo una primavera di vita e di speranza.
Si, vale la pena essere prete perché questo tempo, questa nostra terra ha bisogno più che mai di servi della Parola, persone capaci di camminare sulle strade polverose dell’umanità, portando con sé il mistero di un Dio che si fa vicino, in ogni respiro, in ogni sguardo. Ed è lì, nel donarsi silenzioso del presbitero, che la Parola non sdegna di prendere corpo, fino a diventare pane spezzato, capace di nutrire e ridestare la vita in coloro che se ne nutrono.
In una società che sembra aver dimenticato il senso ultimo delle cose, il prete è colui che ricorda che c’è di più oltre il visibile, che ogni vita ha un valore immenso, e che la speranza non si spegne mai. In ogni angolo di strada, il prete, ministro di una chiesa in uscita, incontra il desiderio nascosto di vita eterna anche in coloro che non sanno nominarlo. Ed è lì che entra in gioco, non per convertire con parole forti, ma per accompagnare con umiltà, per ascoltare e dare voce a ciò che in tanti hanno dimenticato di cercare. Essere prete oggi vale la pena perché, proprio in un tempo di frammentazione e incertezze, il prete diventa un testimone silenzioso di una speranza che va oltre le mode, oltre il successo immediato. In un mondo che sembra aver trovato tutte le risposte, il prete sa che le domande più profonde restano intatte, e vale la pena esserci, per offrire un rifugio a chiunque, nel silenzio, le stia ancora ponendo.
Fratelli miei, si vale la pena essere prete, anche nell’incertezza del crinale d’epoca, anche se a volte sembriamo aver smarrito il senso del nostro esserci, la Parola, l’Eucarestia e la fraternità vissuta ce lo ridoneranno con una freschezza rinnovata. Per questo oggi più che mai è importante essere amici: amici di Cristo, amici tra noi. E proprio come un amico, come un padre o se volete un fratello maggiore, voglio condividere con voi tre icone, tre dettagli, tre attenzioni che possono dire qualcosa alla nostra vita, al nostro ministero. Se dovessi dare un titolo a queste tre icone, le chiamerei così: la mano del seminatore, i piedi del pellegrino, gli occhi del testimone.
La mano del seminatore.
Sapete uno dei miei dipinti preferiti, è proprio il seminatore di Vincent van Gogh. In quest’opera la mano del seminatore è un elemento carico di simbolismo. La mano, in particolare, assume un ruolo centrale: è rappresentata in modo vigoroso e dinamico, quasi esagerata nelle dimensioni rispetto al resto del corpo. La mano del seminatore, che lancia i semi nel terreno, diventa un simbolo di speranza e di continuità, un segno di fiducia profonda nella forza generativa della vita, di una vita capace di attraversare inverni rigidi ed estati aride ma che continua ad essere seminata affinché la morte non trionfi e l’esistenza fiorisca.
La mano del Seminatore è la mano di Dio, e al contempo la mano di chi si mette in sintonia con Lui, ponendosi alla sequela della sua Parola. La figura del seminatore, infatti, evocata con grande profondità nel Vangelo di Matteo (cfr. cap. 13), ci invita a rimanda alla bellezza potente del seme, simbolo della Parola, che richiede un terreno fecondo e ben disposto per poter dare frutto.
Fratelli presbiteri, prima di essere seminatori entusiasti della Parola, vigilate sul terreno del vostro cuore, innaffiatelo quotidianamente con l’acqua della preghiera, aratelo ogni giorno con la bellezza difficile del confronto con i vostri fratelli del presbiterio, e custodite i germogli che spunteranno con la tenerezza di chi sa bene di essere fragile e che proprio per questo necessita di una cura e attenzione. Troppe volte infatti siamo proiettati nella cura degli altri – che non è mai troppa per carità – ma se dimentichiamo la cura del nostro cuore e della nostra vita, come saremo capaci di seminare nel cuore di chi ci è affidato?
Lasciar seminare al Signore nella terra della nostra vita e seminare a nostra volta, significa anche imparare a nutrire relazioni autentiche, in cui ci si prende per mano, per creare una comunità propizia alla crescita e alla fioritura di ciascuno. La mano del seminatore è una mano che si apre verso il cielo, una mano che offre e benedice, mano simbolo di premura, vigilanza e amore, mano che non solo distribuisce qualcosa che ha, ma dona sé stessa, come aiuto concreto, segno e strumento di comunione e di vita. Nella nostra vita di preti, questo gesto di seminare si traduce in un incessante compito di guida, ascolto e accompagnamento, servizio delle nostre comunità. Siamo chiamati ad essere, al tempo stesso, seminatori e custodi di una fede che si fa carne, di una vita che chiede condivisione e custodia, di una verità amorevole che abbraccia ogni aspetto dell’esistenza umana e risponde alle necessità di tutti. Fratelli miei, guardiamo il nostro cuore e chiediamoci: lo lascio irrorare dal Signore, lo lascio arare dai fratelli? O sono piuttosto autosufficiente, chiuso al ciclo della vita, bastante a me stesso? E poi guardiamo le nostre mai e chiediamoci: sono mani che seminano senza trattenere, che accarezzano senza possedere, che donano senza chiedere?
I piedi del pellegrino.
I piedi del pellegrino sono il simbolo vivo del cammino, segnati dalla polvere delle strade percorse e dal peso del viaggio interiore. Ogni passo, lento o incerto, diventa un atto di fede, un incedere verso una meta mai del tutto raggiunta ma sempre scolpita nel cuore.
I piedi portano con sé il dolore della fatica e le cicatrici del percorso, ma anche la forza della perseveranza, il coraggio di proseguire nonostante gli ostacoli. Nudi o calzati, i piedi del pellegrino raccontano una storia di ricerca e trasformazione. Attraversano sentieri aridi, guadi e montagne, ma soprattutto attraversano il deserto, dove ogni passo avvicina a una verità più profonda.
Sono piedi che conoscono la terra e la sua durezza, ma che sanno anche accarezzarla con rispetto, perché ogni zolla calpestata è luogo sacro. Come il cammino stesso, i piedi del pellegrino sono umili e silenziosi, eppure possiedono una forza che nasce dal desiderio di andare avanti, di non fermarsi, di trovare il senso oltre la strada visibile. Sono il simbolo dell’inquietudine umana, sempre in cerca di qualcosa di più grande, di un luogo che non è solo una destinazione fisica, ma un porto interiore, una pace che si trova solo dopo aver percorso lunghe distanze, dentro e fuori di sé.
I piedi del pellegrino ci guidano, sono il segno del nostro cammino di preti, il motore della nostra vocazione: il cammino della vita, intriso di sfide e ostacoli, diviene un percorso di crescita e santificazione, e nell’incontro con il marginale, con il povero, con il diverso e il sofferente possiamo incontrare un altro pellegrino, il Cristo stesso, che cammina con noi. Fratelli miei sappiamo riconoscere nei piedi di chi ci cammina accanto il passo di Cristo che ci viene incontro? E i nostri piedi hanno l’ansia di muoversi, di continuare la ricerca, di restare pellegrini o sono tentate dal fermarsi, dal rifugiarsi in abitudini consolidate, o peggio ancora afferrati dalla tentazione di tornare indietro, di restaurare tempi che non sono più e che, per grazia di Dio, non possono tornare?
Gli occhi del testimone.
Lo sguardo di chi testimonia la speranza ha una luce che va oltre il presente. È uno sguardo che ha conosciuto il buio, ma che non si è arreso all’oscurità. C’è una profondità in quegli occhi, come se riflettessero una visione nascosta agli altri, una promessa lontana ma certa.
Non è uno sguardo ingenuo, non ignora le difficoltà o il dolore del mondo, ma le attraversa con la forza di chi sa che ogni notte, per quanto lunga, cede sempre all’alba.
Lo sguardo di chi testimonia la speranza non si ferma mai alla superficie: è uno sguardo che solleva, che invita a credere, a rialzarsi, a non smettere mai di cercare la luce anche quando tutto sembra perduto.
Quando penso agli occhi del testimone e allo sguardo della speranza penso sempre a Dom Helder Càmara. Erano i giorni del Seminario teologico, lunghi giorni di sfiducia e dubbi. Avevo un grande desiderio di mollare tutto. Non riuscivo a comprendere pienamente la mia vita. E così mentre vivevo questo travaglio, la Chiesa calabrese organizzò un incontro con una rappresentanza di giovani delle diverse diocesi, per programmare insieme la pastorale giovanile degli anni ‘80. Non vi nascondo che profondamente in crisi, avevo già deciso dentro di me di lasciare il Seminario, ma partecipai comunque all’incontro, malvolentieri e con un’aria di sfida.
All’incontro era invitato lui, Dom Helder, voce dei senza voce dei paesi impoveriti, ma questo lo scoprii solo dopo. In un angolo, tutto solo, scorsi quell’uomo vecchio, scavato, di corporatura minuta, tanto fragile. Lo conoscevo perché avevo letto e meditato i suoi testi. Le sue scelte e la sua vita, da sempre, mi avevano affascinato. E quel giorno, chissà perché, c’era, con mio grande stupore, anche lui!
Lo riconobbi e provai, con trepidazione, ad accostarmi a lui. Ma egli mi precedette, avvicinandosi a me e, pur senza conoscermi, mi abbracciò. Fra le sue braccia scoppiai a piangere, come un bambino. Sento ancora sul viso quelle lacrime; lacrime che bruciavano di un Amore assoluto, ritrovato, e, mentre mi teneva stretto a sé, sentii tutta la tenerezza di Dio, la stessa tenerezza incontrata per la prima volta negli occhi profondi di mia madre.
Andammo a pranzo, e durante tutto il tempo, non smisi mai di osservarlo; ne ero come rapito. Mangiò pochissimo: due fili di pasta; non volle la carne: “No, grazie”, disse, “la mia gente non la mangia”. Non volle neanche il caffè: “no, grazie”, disse, “alla mia gente glielo fanno fare il caffè, ma non glielo fanno bere”.
Sapete, negli occhi di quest’uomo avevo colto il senso divino della giustizia e la fiamma sempre viva della speranza. E lì cominciai ad intravedere e a pensare come avrei voluto essere prete, essere Chiesa, Chiesa alla sequela del Cristo! Tra le braccia di Dom Helder avevo sentito, sperimentato, l’abbandono in Dio.
Fratelli miei, nei momenti di smarrimento e di stanchezza, non cessate mai di pensare a quei testimoni che vi hanno aiutato a dirigere lo sguardo sulla bellezza di Cristo e ad alimentare in voi la fiamma del Vangelo e guardando coloro che vi sono affidati, cercate di donare il loro stesso sguardo, sguardo di tenerezza, giustizia, accoglienza, speranza.
Fratelli miei, cerchiamo sempre di essere mani che seminano con generosità la Parola di vita, piedi instancabili nel camminare tra le strade degli uomini, e occhi capaci di illuminare la speranza. E quando il cammino diventa impervio e l’oscurità sembra non abbandonare il cuore, rivolgiamoci a Maria, guardiamo a lei e chiediamole:
Madre nostra, Sentinella dell’alba che viene,
quanto resta della notte?
Se resta poco, ridestaci dal sonno,
sostieni le nostre opere di giustizia
così che insieme a te riusciremo ad affrettare l’aurora.
Se invece resta tanto
prendici per mano
e aiutaci ad indossare le vesti più luminose,
cosicché camminando come pellegrini tra le strade del tempo,
seminando la Parola d’amore del tuo Figlio,
testimoniando attraverso il servizio umile e disinteressato il suo Vangelo,
coloro che incontriamo e la porzione di Chiesa che ci affidi,
possa intravedere tra le pieghe dei nostri abiti nuziali
l’alba della resurrezione, la luce primaverile della Pasqua, lo sguardo di luce del Risorto! Amen”
1 Simone Cristicchi, Cerco una Parola